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TASI – ALCUNE RIFLESSIONI
Oramai, anche i meno attenti alla “Telenovela TASI” (alzi la mano chi non si è perso qualche puntata), sono a conoscenza del fatto che alcuni Comuni italiani hanno deliberato al riguardo; mentre altri (in vero, la stragrande maggioranza), no. E’ lecito allora chiedersi perché.
Lungi da me giustificare qualunque comportamento inadempiente – tanto meno se relativo alle inefficienze di un ente pubblico – ma è indubbio che, data la complessità della norma di legge istitutiva della tassa in argomento (partorita solo a seguito di lungo travaglio politico – meglio sarebbe stato un aborto terapeutico), nonché l’ampia discrezionalità lasciata alle amministrazioni locali, la delibera relativa non è cosa di poco conto e necessita di approfondite meditazioni. Poi, certo, il fatto che i Comuni amministrati da delle brillanti “teste d’uovo” (o che comunque si affidino a valenti tecnici in veste di consulenti) sono davvero pochissimi, non aiuta.
Mi sono preso la briga (sapete com’è, in questo periodo dell’anno mi annoio da morire) di andare a leggermi alcune delibere comunali. Innanzitutto, ma questa non è una novità, direi di stendere un velo pietoso sulla diuturna rovina della lingua italiana: voi direte che si tratta delle mie solite fissazioni. E non avete torto. Peraltro, posto che l’argomento è già di per sé particolarmente ostico, se quanto meno fosse espresso mediante basi grammaticali e sintattiche accettabili, diverrebbe meno probabile compiere errori interpretativi.
Nel predisporre la delibera, occorre ponderare svariati parametri:
1. La differenza di aliquote in funzione della categoria catastale dell’immobile ed eventuali pertinenze (A…; C…; D…;), e in relazione al tipo di immobile (abitazione principale, a disposizione, locata, in uso gratuito, strumentale etc.);
2. La differenza di aliquote sulla base delle rendite catastali (rivalutate o meno) e del reddito del proprietario, nonché la possibilità di utilizzare il noto mutevole parametro ISEE;
3. La scelta in merito alle detrazioni ordinarie, alle eventuali maggiori detrazioni, a possibili ipotesi di esenzioni parziali o totali (figli a carico, pensionati in case di riposo, ultra sessantacinquenni etc.);
4. L’attenzione sul limite massimo dell’aliquota complessiva che si raggiunge cumulando TASI e IMU;
5. La percentuale a carico del proprietario e quella a carico dell’inquilino.
Insomma, non è proprio un giochetto che si può fare in quattro e quattr’otto.
A questo aggiungiamoci qualche “piccolo” dettaglio: in Italia ci sono circa 60 milioni di unità immobiliari, localizzate in più di 8 mila Comuni. Tantissimi di questi Comuni hanno un Consiglio formato dal maniscalco del paese, dal barista, dal benzinaio; per carità, tutti lavori onorevoli, ma che di sicuro non presuppongono particolare preparazione culturale di carattere giuridico-amministrativa. E che delibera possono elaborare? Provate a immaginare la seduta:
- All’ordine del giorno abbiamo la TARI, la TASI e l’IMU della IUC.
- Sì, sì… continua a bere vino a colazione.
D’altronde, chi governa deve assumersi onori e oneri (non puntarelle e bustarelle… ci siamo abbondantemente stufati della solita tiritera: senatores boni viri, senatus mala bestia). Se qualcuno non se la sente (o non è capace), levi l’incomodo e si faccia prescrivere dal medico di famiglia un’altra cura.
Nel frattempo, i contribuenti (e, ahimè, i loro commercialisti) sono alle prese con dei novelli cubi di Rubik da risolvere in tempi strettissimi. Vae victis! Zitti e mosca (se preferite).
Il governo centrale, poi, ci mette molto del suo e ingarbuglia ancor di più la situazione, predisponendo, col bene placido delle commissioni parlamentari, delle proroghe parziali (le quali, tra l’altro, assumeranno valore di legge solo una settimana dopo la scadenza del pagamento della TASI), che vanno a premiare i Comuni “non deliberanti”. Sì, avete capito bene: i sindaci d’Italia ci frastagliano gli organi di riproduzione (si può dire frastagliano?) da anni, piangendo miseria (loro!), promuovendo pubbliche proteste e fomentando rivolte contro lo Stato (sic!), perché non vengono concesse adeguate entrate. Ma quando hanno la possibilità di deliberarne tante, in tempi brevissimi, non lo fanno. Ergo, sono inadempienti. E lo Stato li premia pure, garantendo comunque un introito, alla stessa data in cui avrebbero dovuto incamerare i soldi dei cittadini a fronte dei versamenti per la TASI.
Provate, voi, a non adempiere alle vostre obbligazioni tributarie entro le scadenze di legge, e poi vediamo che tipo di “premio” vi riserva l’Erario.
Oltre tutto (mi fa specie che qualcuno non abbia nemmeno lontanamente paventato la cosa), a me molto immodestamente pare, vi sia un’evidente disparità di trattamento tra i Comuni (e, conseguentemente, gli Italiani) con TASI al 16 giugno e quelli al 16 ottobre, degna di attenzione costituzionale.
Ma, dico io, pareva così difficile predisporre un rinvio generalizzato, posto che il pasticciaccio è totalmente made by public administration e chi ne subisce le conseguenze è il solito contribuente Pantalone?
Va beh, ingoiamo pure questa…
Scusate per la pubblica trasposizione scritta di private riflessioni personali e… buona TASI a tutti!
Lungi da me giustificare qualunque comportamento inadempiente – tanto meno se relativo alle inefficienze di un ente pubblico – ma è indubbio che, data la complessità della norma di legge istitutiva della tassa in argomento (partorita solo a seguito di lungo travaglio politico – meglio sarebbe stato un aborto terapeutico), nonché l’ampia discrezionalità lasciata alle amministrazioni locali, la delibera relativa non è cosa di poco conto e necessita di approfondite meditazioni. Poi, certo, il fatto che i Comuni amministrati da delle brillanti “teste d’uovo” (o che comunque si affidino a valenti tecnici in veste di consulenti) sono davvero pochissimi, non aiuta.
Mi sono preso la briga (sapete com’è, in questo periodo dell’anno mi annoio da morire) di andare a leggermi alcune delibere comunali. Innanzitutto, ma questa non è una novità, direi di stendere un velo pietoso sulla diuturna rovina della lingua italiana: voi direte che si tratta delle mie solite fissazioni. E non avete torto. Peraltro, posto che l’argomento è già di per sé particolarmente ostico, se quanto meno fosse espresso mediante basi grammaticali e sintattiche accettabili, diverrebbe meno probabile compiere errori interpretativi.
Nel predisporre la delibera, occorre ponderare svariati parametri:
1. La differenza di aliquote in funzione della categoria catastale dell’immobile ed eventuali pertinenze (A…; C…; D…;), e in relazione al tipo di immobile (abitazione principale, a disposizione, locata, in uso gratuito, strumentale etc.);
2. La differenza di aliquote sulla base delle rendite catastali (rivalutate o meno) e del reddito del proprietario, nonché la possibilità di utilizzare il noto mutevole parametro ISEE;
3. La scelta in merito alle detrazioni ordinarie, alle eventuali maggiori detrazioni, a possibili ipotesi di esenzioni parziali o totali (figli a carico, pensionati in case di riposo, ultra sessantacinquenni etc.);
4. L’attenzione sul limite massimo dell’aliquota complessiva che si raggiunge cumulando TASI e IMU;
5. La percentuale a carico del proprietario e quella a carico dell’inquilino.
Insomma, non è proprio un giochetto che si può fare in quattro e quattr’otto.
A questo aggiungiamoci qualche “piccolo” dettaglio: in Italia ci sono circa 60 milioni di unità immobiliari, localizzate in più di 8 mila Comuni. Tantissimi di questi Comuni hanno un Consiglio formato dal maniscalco del paese, dal barista, dal benzinaio; per carità, tutti lavori onorevoli, ma che di sicuro non presuppongono particolare preparazione culturale di carattere giuridico-amministrativa. E che delibera possono elaborare? Provate a immaginare la seduta:
- All’ordine del giorno abbiamo la TARI, la TASI e l’IMU della IUC.
- Sì, sì… continua a bere vino a colazione.
D’altronde, chi governa deve assumersi onori e oneri (non puntarelle e bustarelle… ci siamo abbondantemente stufati della solita tiritera: senatores boni viri, senatus mala bestia). Se qualcuno non se la sente (o non è capace), levi l’incomodo e si faccia prescrivere dal medico di famiglia un’altra cura.
Nel frattempo, i contribuenti (e, ahimè, i loro commercialisti) sono alle prese con dei novelli cubi di Rubik da risolvere in tempi strettissimi. Vae victis! Zitti e mosca (se preferite).
Il governo centrale, poi, ci mette molto del suo e ingarbuglia ancor di più la situazione, predisponendo, col bene placido delle commissioni parlamentari, delle proroghe parziali (le quali, tra l’altro, assumeranno valore di legge solo una settimana dopo la scadenza del pagamento della TASI), che vanno a premiare i Comuni “non deliberanti”. Sì, avete capito bene: i sindaci d’Italia ci frastagliano gli organi di riproduzione (si può dire frastagliano?) da anni, piangendo miseria (loro!), promuovendo pubbliche proteste e fomentando rivolte contro lo Stato (sic!), perché non vengono concesse adeguate entrate. Ma quando hanno la possibilità di deliberarne tante, in tempi brevissimi, non lo fanno. Ergo, sono inadempienti. E lo Stato li premia pure, garantendo comunque un introito, alla stessa data in cui avrebbero dovuto incamerare i soldi dei cittadini a fronte dei versamenti per la TASI.
Provate, voi, a non adempiere alle vostre obbligazioni tributarie entro le scadenze di legge, e poi vediamo che tipo di “premio” vi riserva l’Erario.
Oltre tutto (mi fa specie che qualcuno non abbia nemmeno lontanamente paventato la cosa), a me molto immodestamente pare, vi sia un’evidente disparità di trattamento tra i Comuni (e, conseguentemente, gli Italiani) con TASI al 16 giugno e quelli al 16 ottobre, degna di attenzione costituzionale.
Ma, dico io, pareva così difficile predisporre un rinvio generalizzato, posto che il pasticciaccio è totalmente made by public administration e chi ne subisce le conseguenze è il solito contribuente Pantalone?
Va beh, ingoiamo pure questa…
Scusate per la pubblica trasposizione scritta di private riflessioni personali e… buona TASI a tutti!
venerdì 6 giugno 2014
giovedì 5 giugno 2014
mercoledì 4 giugno 2014
lunedì 2 giugno 2014
venerdì 30 maggio 2014
giovedì 29 maggio 2014
mercoledì 28 maggio 2014
sabato 24 maggio 2014
venerdì 23 maggio 2014
Quanto costa dedurre le perdite su crediti dal reddito
Si avvicina la scadenza per il
deposito dei bilanci e gli studi professionali sono alle prese – tra l’altro – con
l’usuale lavoro di raccordo fra norme civilistiche e fiscali. Con riferimento
alle varie poste meritevoli di particolare attenzione in relazione ai
potenziali risvolti di carattere fiscale, vi sono senza dubbio le perdite concernenti
i crediti non riscossi che l’impresa, specie in questi anni di grave crisi
economica, è costretta a sopportare.
L’art. 101, c. 5, del D.P.R. n.
917/1986 stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito
d’impresa se risultano da elementi certi e precisi, oppure se il debitore è
assoggettato a una procedura concorsuale o ha concluso un accordo di
ristrutturazione dei debiti omologato (art. 182-bis del R.D. 267/1942).
Come all’uopo precisato nella
Circolare Ministeriale 39/E del 2002, la deduzione dal reddito d’impresa deve
intendersi ammissibile quando la perdita su crediti diviene definitiva,
escludendo ogni elemento valutativo e presuntivo. In particolare, è stato anche
di recente ribadito (Circolare 26/E del 2013), che la definitività della
perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro
il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria
pretesa creditoria. Il generico riferimento dell’art. 101, c. 5, del TUIR alla
ricorrenza degli elementi certi e precisi implica, pertanto, la necessità di
ricorrere a una valutazione specifica, in base al caso concreto, dell’idoneità
di tali elementi a dimostrare la definitività della perdita, tenendo altresì
conto del peculiare contesto in cui la stessa è maturata. A tal riguardo,
l’Amministrazione ha osservato che la perdita su crediti può ritenersi definitiva
soltanto a fronte di uno stato oggettivo d’insolvenza non temporanea del
debitore, riscontrabile qualora la situazione di illiquidità finanziaria e di incapienza
patrimoniale sia tale da fare escludere la possibilità di un futuro
soddisfacimento della posizione creditoria. Detta situazione può certamente
considerarsi verificata, a parere dell’Agenzia delle Entrate, in presenza di un
decreto accertante lo stato di fuga, la latitanza o irreperibilità del
debitore, ovvero in caso di denuncia di furto d’identità da parte di
quest’ultimo (art. 494 c.p.), o nell’ipotesi di persistente assenza dello
stesso (art. 49 c.c.). A questo proposito, possono reputarsi quali sufficienti
elementi di prova tutti quei documenti attestanti l’esito negativo delle azioni
esecutive avviate dal creditore, come il verbale di pignoramento negativo, purché
l’infruttuosità delle stesse risulti pure sulla base di una valutazione
complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e
definitiva.
Sul punto, a esempio, la sopra
menzionata Circolare del 2013 ha ricordato che anche l’infruttuosa attivazione
delle procedure esecutive nei confronti di un ente pubblico, peraltro non
assoggettabile a procedure concorsuali, non è da sola sufficiente a dimostrare
l’impossibilità futura di recuperare il credito.
Un altro utile elemento di prova, a
corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, può essere rappresentato
dalla documentazione idonea a dimostrare che è sconsigliata l’instaurazione di procedure
esecutive: in proposito, possono essere tenute in considerazione le lettere dei
legali incaricati della riscossione del credito (Cass. 3862/2001), o le
relazioni rilasciate dalle agenzie di recupero di cui all’art. 115 del TULPS,
nell’ipotesi di mancato successo dell’attività di riscossione.
Fin qui la normativa vigente e le
conseguenti interpretazioni ministeriali e giurisprudenziali. Peraltro,
sembrerebbe quanto mai illogico estraniarsi dalla realtà in cui si vive nell’applicazione
pratica delle leggi. Su tale fondamento, non vi è chi non veda come, nella
fattispecie in esame, la legge paia oltremodo anacronistica.
Dopo aver subito nocumento a
seguito dell’IVA versata anche se mai incassata, l’imprenditore si trova
obbligato a spendere dei soldi per poter “ripulire” il bilancio civilistico da
voci attive che, di fatto, risultano essere fittizie, in quanto relative a
crediti di cui è certa l’impossibilità sostanziale d’incasso, ma è vietato il
riporto a perdita, salvo – come detto – non si spendano dei soldi per
dimostrare ufficialmente tale circostanza. Cosa che, tra l’altro, comporta una
scarsa veridicità circa la reale complessiva situazione dell’azienda.
Innanzitutto, le probabilità che
un’impresa sia assoggettata alle procedure concorsuali, oggi come oggi, sono
sempre minori: vuoi per i parametri fissati dalla legge, vuoi proprio perché i
creditori dovrebbero spendere dei soldi ed è evidente che non lo faranno se non
ritengono che almeno una parte del loro credito possa essere incamerato.
In secondo luogo, l’Agenzia delle
Entrate precisa che, se si vuole dedurre la perdita maturata su un credito, in
pratica, o viene dichiarato il fallimento del debitore, oppure: “la
definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere
l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto
parzialmente, la propria pretesa creditoria”. Ma, nel caso di un fallimento, in
genere, accade proprio questo: insinuazione al passivo per il 100% del proprio
credito e presumibile realizzo al termine della procedura di una piccola parte
dello stesso.
Si obietterà che, proprio la
recente Legge di Stabilità ha introdotto un correttivo alla normativa,
prevedendo che, in caso di cancellazione di un credito dallo stato
patrimoniale, si potrà dedurre la relativa perdita senza dover dimostrare la
sussistenza dei requisiti della «certezza e precisione», a condizione che lo
storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi
contabili e senza intenti elusivi. In pratica, si tratta, però, solo della
stessa normativa varata nel 2012 e illustrata con la sopra menzionata Circolare
26/E del 2013, che diventa – fin dal bilancio la cui presentazione è ora in
scadenza – applicabile adesso a tutte le imprese, anche a quelle c.d. non IAS
Adopter.
Il punto è che tale norma non è
affatto chiara. Cosa significa: “A condizione che lo storno del credito sia
stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza
intenti elusivi”? Parrebbe evidente sempre che i crediti debbano essere
stornati rispettando tali precetti. E la citata Circolare – come appena visto –
certo non aiuta, continuando di fatto a porre l’accento sulla necessità di
documentare le solite casistiche (stato d’insolvenza definitiva, reati,
tentativi legali infruttuosi etc.).
A parere di chi scrive, insomma, la
normativa in questione appare oramai divenuta assolutamente anacronistica
(anche e soprattutto a causa dell’attuale periodo di crisi economica), e
necessiterebbe quanto meno di un immediato “restyling”. Con l’ultima Legge di
Stabilità si è, semmai, a conti fatti, persa l’importante occasione di agire
nella corretta sede istituzionale.
martedì 20 maggio 2014
Modello Unico Precompilato
"Sono convinto che se ci
impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms".
“L'Italia è un Paese che incasina
le cose semplici, ma le tasse bisogna pagarle con maggiore semplicità".
Chi non è d’accordo con simili
affermazioni?
Il dubbio insorge allorché a
pronunciarle è qualcuno che continua a chiamare il “Modello Unico”: “740”. Mi
ricorda tanto il mio povero nonno che, all’epoca in cui combattevo con i primi
insegnamenti scolastici, quando il telefono si guastava, continuava a ripetere:
“Bisogna chiamare la TETI”; e, non comprendendo, gli domandavo: “Nonno, cos’è
la TETI? Semmai, la SIP” (allora, non esisteva ancora la Telecom… bei tempi – n.d.a.).
L’ultima trovata populista (o
propagandista, fate voi) è il “Modello Unico Precompilato”.
Si penserà che la mia è una difesa
dell’orticello: padronissimi di crederlo, ma non è così. La mia è forte
preoccupazione… financo, palpitazione.
Permettetemi se, alla luce delle
diuturne dimostrazioni (non ultima la TASI), nutra seri dubbi sul fatto che il
Governo e i suoi amici “tecnici” abbiano la capacità di predisporre il citato
modulo dichiarativo, riuscendo a non combinare i soliti impicci che, indovinate
chi poi avrà il compito di risolvere? (ovviamente, gratis).
Innanzitutto, la tipologia di
contribuenti potenzialmente interessata da tale innovazione (nel mio, come
nella stragrande maggioranza degli studi dei colleghi che conosco), non
comporta una rilevante diminuzione del volume d’affari: vuoi perché si tratta
di adempimenti veramente minimi che non possono avere alcun “peso” in ordine di
fatturato; vuoi perché in genere sono dichiarazioni eseguite di fatto
gratuitamente (parenti dell’imprenditore che già paga la parcella per la
propria azienda e nei confronti del quale, assai raramente, è possibile richiedere
un extra per qualcosa che viene ritenuta una “cortesia obbligata”). Insomma, alla
fine dei conti, si hanno solo numerosi inconvenienti nel chiamare il cliente e racimolare
per tempo la documentazione necessaria senza ottenerne alcun effettivo ritorno
in termini di corrispettivo, e con l'aggravante di essere accusati di
aver fatto del "nero" in occasione di controlli.
Senonché, inutile negarlo, esistono
pur sempre parecchi studi in cui, anche i semplificati adempimenti dichiarativi
in questione, costituiscono un’importante fetta di lavoro e che – ahinoi – meriterebbero
un Consiglio Nazionale in grado di difenderne gli interessi (certo, prima
dovrebbe esistere un Consiglio Nazionale, stante il perdurante vuoto
governativo che continua ad attanagliare la categoria; ma questa è un’altra
storia).
Tornando però al nocciolo del
problema, occorre focalizzare l’attenzione sul seguente aspetto:
posto che tanti studi svolgono tale
tipologia di lavoro e che, evidentemente, vi sono dei dipendenti all’uopo
preposti, che fine farà questo personale? Andrà ad accrescere l’esercito
italiano dei disoccupati?
I miei complimenti, davvero una
brillante iniziativa: per far risparmiare 50 euro a una ridotta fetta di
elettori, si tagliano gli stipendi di tanti lavoratori.
Meditate, gente, meditate…
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