sabato 7 giugno 2014

Avviamento e marchi d’impresa: ecco le regole per l’affrancamento Studio Dr. Paolo Soro

Avviamento e marchi d’impresa: ecco le regole per l’affrancamento Studio Dr. Paolo Soro

TASI – ALCUNE RIFLESSIONI

Oramai, anche i meno attenti alla “Telenovela TASI” (alzi la mano chi non si è perso qualche puntata), sono a conoscenza del fatto che alcuni Comuni italiani hanno deliberato al riguardo; mentre altri (in vero, la stragrande maggioranza), no. E’ lecito allora chiedersi perché.
Lungi da me giustificare qualunque comportamento inadempiente – tanto meno se relativo alle inefficienze di un ente pubblico – ma è indubbio che, data la complessità della norma di legge istitutiva della tassa in argomento (partorita solo a seguito di lungo travaglio politico – meglio sarebbe stato un aborto terapeutico), nonché l’ampia discrezionalità lasciata alle amministrazioni locali, la delibera relativa non è cosa di poco conto e necessita di approfondite meditazioni. Poi, certo, il fatto che i Comuni amministrati da delle brillanti “teste d’uovo” (o che comunque si affidino a valenti tecnici in veste di consulenti) sono davvero pochissimi, non aiuta.
Mi sono preso la briga (sapete com’è, in questo periodo dell’anno mi annoio da morire) di andare a leggermi alcune delibere comunali. Innanzitutto, ma questa non è una novità, direi di stendere un velo pietoso sulla diuturna rovina della lingua italiana: voi direte che si tratta delle mie solite fissazioni. E non avete torto. Peraltro, posto che l’argomento è già di per sé particolarmente ostico, se quanto meno fosse espresso mediante basi grammaticali e sintattiche accettabili, diverrebbe meno probabile compiere errori interpretativi.
Nel predisporre la delibera, occorre ponderare svariati parametri:
1.    La differenza di aliquote in funzione della categoria catastale dell’immobile ed eventuali pertinenze (A…; C…; D…;), e in relazione al tipo di immobile (abitazione principale, a disposizione, locata, in uso gratuito, strumentale etc.);
2.    La differenza di aliquote sulla base delle rendite catastali (rivalutate o meno) e del reddito del proprietario, nonché la possibilità di utilizzare il noto mutevole parametro ISEE;
3.    La scelta in merito alle detrazioni ordinarie, alle eventuali maggiori detrazioni, a possibili ipotesi di esenzioni parziali o totali (figli a carico, pensionati in case di riposo, ultra sessantacinquenni etc.);
4.    L’attenzione sul limite massimo dell’aliquota complessiva che si raggiunge cumulando TASI e IMU;
5.    La percentuale a carico del proprietario e quella a carico dell’inquilino.
Insomma, non è proprio un giochetto che si può fare in quattro e quattr’otto.
A questo aggiungiamoci qualche “piccolo” dettaglio: in Italia ci sono circa 60 milioni di unità immobiliari, localizzate in più di 8 mila Comuni. Tantissimi di questi Comuni hanno un Consiglio formato dal maniscalco del paese, dal barista, dal benzinaio; per carità, tutti lavori onorevoli, ma che di sicuro non presuppongono particolare preparazione culturale di carattere giuridico-amministrativa. E che delibera possono elaborare? Provate a immaginare la seduta:
-    All’ordine del giorno abbiamo la TARI, la TASI e l’IMU della IUC.
-    Sì, sì… continua a bere vino a colazione.
D’altronde, chi governa deve assumersi onori e oneri (non puntarelle e bustarelle… ci siamo abbondantemente stufati della solita tiritera: senatores boni viri, senatus mala bestia). Se qualcuno non se la sente (o non è capace), levi l’incomodo e si faccia prescrivere dal medico di famiglia un’altra cura.
Nel frattempo, i contribuenti (e, ahimè, i loro commercialisti) sono alle prese con dei novelli cubi di Rubik da risolvere in tempi strettissimi. Vae victis! Zitti e mosca (se preferite).
Il governo centrale, poi, ci mette molto del suo e ingarbuglia ancor di più la situazione, predisponendo, col bene placido delle commissioni parlamentari, delle proroghe parziali (le quali, tra l’altro, assumeranno valore di legge solo una settimana dopo la scadenza del pagamento della TASI), che vanno a premiare i Comuni “non deliberanti”. Sì, avete capito bene: i sindaci d’Italia ci frastagliano gli organi di riproduzione (si può dire frastagliano?) da anni, piangendo miseria (loro!), promuovendo pubbliche proteste e fomentando rivolte contro lo Stato (sic!), perché non vengono concesse adeguate entrate. Ma quando hanno la possibilità di deliberarne tante, in tempi brevissimi, non lo fanno. Ergo, sono inadempienti. E lo Stato li premia pure, garantendo comunque un introito, alla stessa data in cui avrebbero dovuto incamerare i soldi dei cittadini a fronte dei versamenti per la TASI.
Provate, voi, a non adempiere alle vostre obbligazioni tributarie entro le scadenze di legge, e poi vediamo che tipo di “premio” vi riserva l’Erario.
Oltre tutto (mi fa specie che qualcuno non abbia nemmeno lontanamente paventato la cosa), a me molto immodestamente pare, vi sia un’evidente disparità di trattamento tra i Comuni (e, conseguentemente, gli Italiani) con TASI al 16 giugno e quelli al 16 ottobre, degna di attenzione costituzionale.
Ma, dico io, pareva così difficile predisporre un rinvio generalizzato, posto che il pasticciaccio è totalmente made by public administration e chi ne subisce le conseguenze è il solito contribuente Pantalone?
Va beh, ingoiamo pure questa…
Scusate per la pubblica trasposizione scritta di private riflessioni personali e… buona TASI a tutti!

venerdì 6 giugno 2014

16 giugno 2014: si salvi chi può! Studio Dr. Paolo Soro

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Detraibilità IRPEF delle spese per

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Banche, finanziarie e assicurazioni: addizionale Ires e maggiori acconti Studio Dr. Paolo Soro

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Perdite e svalutazioni su crediti: le novità della legge di stabilità Studio Dr. Paolo Soro

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Cooperative - Deposito bilanci 2013; le FAQ del Ministero dello Sviluppo Economico Studio Dr. Paolo Soro

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Rassegna stampa dalla rivista telematica dell'Agenzia delle Entrate Studio Dr. Paolo Soro

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venerdì 23 maggio 2014

Quanto costa dedurre le perdite su crediti dal reddito



Si avvicina la scadenza per il deposito dei bilanci e gli studi professionali sono alle prese – tra l’altro – con l’usuale lavoro di raccordo fra norme civilistiche e fiscali. Con riferimento alle varie poste meritevoli di particolare attenzione in relazione ai potenziali risvolti di carattere fiscale, vi sono senza dubbio le perdite concernenti i crediti non riscossi che l’impresa, specie in questi anni di grave crisi economica, è costretta a sopportare.
L’art. 101, c. 5, del D.P.R. n. 917/1986 stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito d’impresa se risultano da elementi certi e precisi, oppure se il debitore è assoggettato a una procedura concorsuale o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (art. 182-bis del R.D. 267/1942).
Come all’uopo precisato nella Circolare Ministeriale 39/E del 2002, la deduzione dal reddito d’impresa deve intendersi ammissibile quando la perdita su crediti diviene definitiva, escludendo ogni elemento valutativo e presuntivo. In particolare, è stato anche di recente ribadito (Circolare 26/E del 2013), che la definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria pretesa creditoria. Il generico riferimento dell’art. 101, c. 5, del TUIR alla ricorrenza degli elementi certi e precisi implica, pertanto, la necessità di ricorrere a una valutazione specifica, in base al caso concreto, dell’idoneità di tali elementi a dimostrare la definitività della perdita, tenendo altresì conto del peculiare contesto in cui la stessa è maturata. A tal riguardo, l’Amministrazione ha osservato che la perdita su crediti può ritenersi definitiva soltanto a fronte di uno stato oggettivo d’insolvenza non temporanea del debitore, riscontrabile qualora la situazione di illiquidità finanziaria e di incapienza patrimoniale sia tale da fare escludere la possibilità di un futuro soddisfacimento della posizione creditoria. Detta situazione può certamente considerarsi verificata, a parere dell’Agenzia delle Entrate, in presenza di un decreto accertante lo stato di fuga, la latitanza o irreperibilità del debitore, ovvero in caso di denuncia di furto d’identità da parte di quest’ultimo (art. 494 c.p.), o nell’ipotesi di persistente assenza dello stesso (art. 49 c.c.). A questo proposito, possono reputarsi quali sufficienti elementi di prova tutti quei documenti attestanti l’esito negativo delle azioni esecutive avviate dal creditore, come il verbale di pignoramento negativo, purché l’infruttuosità delle stesse risulti pure sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e definitiva.
Sul punto, a esempio, la sopra menzionata Circolare del 2013 ha ricordato che anche l’infruttuosa attivazione delle procedure esecutive nei confronti di un ente pubblico, peraltro non assoggettabile a procedure concorsuali, non è da sola sufficiente a dimostrare l’impossibilità futura di recuperare il credito.
Un altro utile elemento di prova, a corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, può essere rappresentato dalla documentazione idonea a dimostrare che è sconsigliata l’instaurazione di procedure esecutive: in proposito, possono essere tenute in considerazione le lettere dei legali incaricati della riscossione del credito (Cass. 3862/2001), o le relazioni rilasciate dalle agenzie di recupero di cui all’art. 115 del TULPS, nell’ipotesi di mancato successo dell’attività di riscossione.
Fin qui la normativa vigente e le conseguenti interpretazioni ministeriali e giurisprudenziali. Peraltro, sembrerebbe quanto mai illogico estraniarsi dalla realtà in cui si vive nell’applicazione pratica delle leggi. Su tale fondamento, non vi è chi non veda come, nella fattispecie in esame, la legge paia oltremodo anacronistica.
Dopo aver subito nocumento a seguito dell’IVA versata anche se mai incassata, l’imprenditore si trova obbligato a spendere dei soldi per poter “ripulire” il bilancio civilistico da voci attive che, di fatto, risultano essere fittizie, in quanto relative a crediti di cui è certa l’impossibilità sostanziale d’incasso, ma è vietato il riporto a perdita, salvo – come detto – non si spendano dei soldi per dimostrare ufficialmente tale circostanza. Cosa che, tra l’altro, comporta una scarsa veridicità circa la reale complessiva situazione dell’azienda.
Innanzitutto, le probabilità che un’impresa sia assoggettata alle procedure concorsuali, oggi come oggi, sono sempre minori: vuoi per i parametri fissati dalla legge, vuoi proprio perché i creditori dovrebbero spendere dei soldi ed è evidente che non lo faranno se non ritengono che almeno una parte del loro credito possa essere incamerato.
In secondo luogo, l’Agenzia delle Entrate precisa che, se si vuole dedurre la perdita maturata su un credito, in pratica, o viene dichiarato il fallimento del debitore, oppure: “la definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria pretesa creditoria”. Ma, nel caso di un fallimento, in genere, accade proprio questo: insinuazione al passivo per il 100% del proprio credito e presumibile realizzo al termine della procedura di una piccola parte dello stesso.
Si obietterà che, proprio la recente Legge di Stabilità ha introdotto un correttivo alla normativa, prevedendo che, in caso di cancellazione di un credito dallo stato patrimoniale, si potrà dedurre la relativa perdita senza dover dimostrare la sussistenza dei requisiti della «certezza e precisione», a condizione che lo storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza intenti elusivi. In pratica, si tratta, però, solo della stessa normativa varata nel 2012 e illustrata con la sopra menzionata Circolare 26/E del 2013, che diventa – fin dal bilancio la cui presentazione è ora in scadenza – applicabile adesso a tutte le imprese, anche a quelle c.d. non IAS Adopter.
Il punto è che tale norma non è affatto chiara. Cosa significa: “A condizione che lo storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza intenti elusivi”? Parrebbe evidente sempre che i crediti debbano essere stornati rispettando tali precetti. E la citata Circolare – come appena visto – certo non aiuta, continuando di fatto a porre l’accento sulla necessità di documentare le solite casistiche (stato d’insolvenza definitiva, reati, tentativi legali infruttuosi etc.).
A parere di chi scrive, insomma, la normativa in questione appare oramai divenuta assolutamente anacronistica (anche e soprattutto a causa dell’attuale periodo di crisi economica), e necessiterebbe quanto meno di un immediato “restyling”. Con l’ultima Legge di Stabilità si è, semmai, a conti fatti, persa l’importante occasione di agire nella corretta sede istituzionale. 

martedì 20 maggio 2014

Modello Unico Precompilato



"Sono convinto che se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms".
“L'Italia è un Paese che incasina le cose semplici, ma le tasse bisogna pagarle con maggiore semplicità".
Chi non è d’accordo con simili affermazioni?
Il dubbio insorge allorché a pronunciarle è qualcuno che continua a chiamare il “Modello Unico”: “740”. Mi ricorda tanto il mio povero nonno che, all’epoca in cui combattevo con i primi insegnamenti scolastici, quando il telefono si guastava, continuava a ripetere: “Bisogna chiamare la TETI”; e, non comprendendo, gli domandavo: “Nonno, cos’è la TETI? Semmai, la SIP” (allora, non esisteva ancora la Telecom… bei tempi – n.d.a.).
L’ultima trovata populista (o propagandista, fate voi) è il “Modello Unico Precompilato”.
Si penserà che la mia è una difesa dell’orticello: padronissimi di crederlo, ma non è così. La mia è forte preoccupazione… financo, palpitazione.
Permettetemi se, alla luce delle diuturne dimostrazioni (non ultima la TASI), nutra seri dubbi sul fatto che il Governo e i suoi amici “tecnici” abbiano la capacità di predisporre il citato modulo dichiarativo, riuscendo a non combinare i soliti impicci che, indovinate chi poi avrà il compito di risolvere? (ovviamente, gratis).
Innanzitutto, la tipologia di contribuenti potenzialmente interessata da tale innovazione (nel mio, come nella stragrande maggioranza degli studi dei colleghi che conosco), non comporta una rilevante diminuzione del volume d’affari: vuoi perché si tratta di adempimenti veramente minimi che non possono avere alcun “peso” in ordine di fatturato; vuoi perché in genere sono dichiarazioni eseguite di fatto gratuitamente (parenti dell’imprenditore che già paga la parcella per la propria azienda e nei confronti del quale, assai raramente, è possibile richiedere un extra per qualcosa che viene ritenuta una “cortesia obbligata”). Insomma, alla fine dei conti, si hanno solo numerosi inconvenienti nel chiamare il cliente e racimolare per tempo la documentazione necessaria senza ottenerne alcun effettivo ritorno in termini di corrispettivo, e con l'aggravante di essere accusati di aver fatto del "nero" in occasione di controlli.
Senonché, inutile negarlo, esistono pur sempre parecchi studi in cui, anche i semplificati adempimenti dichiarativi in questione, costituiscono un’importante fetta di lavoro e che – ahinoi – meriterebbero un Consiglio Nazionale in grado di difenderne gli interessi (certo, prima dovrebbe esistere un Consiglio Nazionale, stante il perdurante vuoto governativo che continua ad attanagliare la categoria; ma questa è un’altra storia).
Tornando però al nocciolo del problema, occorre focalizzare l’attenzione sul seguente aspetto:
posto che tanti studi svolgono tale tipologia di lavoro e che, evidentemente, vi sono dei dipendenti all’uopo preposti, che fine farà questo personale? Andrà ad accrescere l’esercito italiano dei disoccupati?
I miei complimenti, davvero una brillante iniziativa: per far risparmiare 50 euro a una ridotta fetta di elettori, si tagliano gli stipendi di tanti lavoratori.
Meditate, gente, meditate…