venerdì 28 febbraio 2014

Curiosità: l’Agenzia delle Entrate, ora, interpreta pure le sentenze



Siamo consapevoli che tirar l’acqua al proprio mulino sia un naturale fattore umano. Quello che, però, appare francamente incredibile è il contenuto dell’articolo pubblicato dall’Agenzia delle Entrate sulla propria rivista telematica “Fisco Oggi”, la quale dovrebbe essere un organo di informazione per tutti i contribuenti; non uno strumento per disinformare, stravolgendo le pronunce della Cassazione.
Vedere il link:
Con una scelta redazionale quanto mai opinabile, detto organo di “stampa” si è sempre limitato a pubblicare solo le sentenze favorevoli all’Ufficio, tralasciando volutamente quelle che lo hanno visto soccombere in giudizio. E fin qui, passi pure: ripetiamo, secondo noi si tratta di una scelta criticabile, posto che riporta solo una parte della “verità” (ossia, quella più conveniente per l’Ufficio); ma, nel gioco delle parti, ci può anche stare. Seppure parrebbe corretto, se l’intento fosse davvero quello summenzionato di informare, dare una visione generale, non meramente parziale in funzione del proprio tornaconto.
Il 27 febbraio, però, si è andati ben oltre, con un comportamento che pone in discussione l’intero codice deontologico del giornalismo. Forse si sono trovati a corto di sentenze; o forse hanno semplicemente pensato di influenzare qualche distratto lettore, non perfettamente al corrente degli atti; vattelapesca… fatto sta che hanno prodotto, senza che alcuno gliene facesse domanda, una bislacca interpretazione di alcune sentenze della Corte di Cassazione avverso cui ci sentiamo moralmente in dovere di replicare con tutta la forza concessaci dalla nostra modestissima “penna”.
Innanzitutto, non si capisce in base a quale legittimazione, oltre alle innumerevoli ambigue interpretazioni delle norme che regolarmente ci propinano con le loro circolari, ora, debbano arrogarsi il diritto di interpretare pure le pronunce giurisprudenziali: chi glielo ha chiesto? Ma, soprattutto, cosa gli fa pensare che ne abbiano l’autorità e – vieppiù – la capacità?
Comprendiamo bene che l’argomento, per loro, sia alquanto delicato e spinoso: il lavoro da svolgere è tanto e il personale spesso non sufficiente. Ma certo la soluzione al loro problema non può essere quella di calpestare impunemente i diritti costituzionali di tutti i contribuenti. Ci dicono che gli accertamenti vengono fatti indipendentemente da eventuali budget annuali di risultato che le varie agenzie devono conseguire entro la fine di ogni anno. Sarà così; non abbiamo argomenti per dire il contrario. Peraltro, i dati statistici dicono che la maggior parte degli accertamenti, in quasi tutte le agenzie del territorio sono svolti gli ultimi mesi dell’anno. Ovviamente, però, è solo una pura coincidenza.
Andiamo a “Telefisco” e sentiamo il direttore Befera, in contemporanea nazionale, raccontarci che non è vero vi siano dei guadagni ulteriori per i funzionari in relazione al volume di imposte accertate. Senonché, i contratti di lavoro sono pubblici; e chiunque si voglia prender la briga di andare a leggerseli vedrà che sono previsti dei c. d. premi di risultato, come del resto nella quasi totalità di ogni altro contratto collettivo nazionale di lavoro. Dobbiamo presumere che il dott. Befera non conosce il contratto di lavoro in base al quale operano i suoi sottoposti (oltre che lui stesso)?
Ma entriamo nel merito dell’articolo in argomento.
Nulla quaestio sul titolo dell’articolo:
“Se motivato da questioni d’urgenza, ok all’accertamento in accelerata”.
Poi, però, l’abstract, già ne tradisce il contenuto:
“L’imminenza dello scadere dei termini o il comportamento recidivo del contribuente giustificano un atto notificato in anticipo sui tempi fissati dallo Statuto del contribuente”.
Ohibò! E questo da quale sentenza l’hanno desunto?
È vero: la Cassazione (2587/2014) ha ritenuto sussistere validi motivi d’urgenza in un caso in cui si è appurato un comportamento recidivo del contribuente costituito da reiterate condotte penali tributarie. Su questo, tutti concordiamo. La sentenza in questione non fa una grinza.
Ma “l’imminenza dello scadere dei termini” come valido motivo d’urgenza? Quando mai?
Allora, non si porrebbe proprio la questione: l’Ufficio, per sua esclusiva colpa, incorre sistematicamente a fine anno in simili situazioni limite, come abbiamo già avuto modo di scrivere. Pertanto, non ci sarebbe in pratica un solo caso in cui non esistano validi motivi d’urgenza.
Nell’articolo si legge: “Con le sentenze 1869/2014 e 2595/2014, pur non escludendo che l’imminente scadenza del termine per la notifica dell’accertamento possa giustificare l’emissione anticipata dell’atto…” Pur non escludendo?
Cassazione 1869/2014:
“La ritenuta legittimità dell’atto impositivo non è conforme a diritto, non essendo rilevante che era in scadenza il termine di decadenza di cui all’art. 57 del Dpr n. 633 del 1972, per la rettifica relativa all’Iva per lo stesso periodo d'imposta”.
Ma possiamo aggiungere anche qualcosa di più recente e, soprattutto, di estremamente chiaro.
Cassazione 3142 del 12 febbraio 2014:
“Non è sufficiente ad assolvere all’onere che grava sulla Amministrazione finanziaria la mera allegazione dell’impedimento costituito dalla imminente scadenza del termine di decadenza per la notifica dell’atto impositivo, ma occorre altresì la prova che la circostanza in questione non sia stata determinata da fatto imputabile alla stessa PA, non essendo logicamente ipotizzabile una diversa interpretazione della norma tale da legittimare, in astratto, condotte elusive del termine dilatorio, volte a precostituire la ragione di urgenza mediante l’ingiustificato differimento dell’inizio o della chiusura delle operazioni di verifica fiscale”.
L’articolo poi espone alcune sentenze a suo parere indicative del fatto che il termine dei 60 giorni valga solo per gli avvisi di accertamento conseguenti agli accessi presso la sede del contribuente e non anche per gli altri tipi di accertamenti. Senonché, oltre che evidentemente difficile da capire dal punto di vista razionale, ci pare che avvallare determinate conclusioni attraverso il ricorso a una giurisprudenza precedente alla principale pronuncia delle Sezioni Unite risulti quanto meno azzardato.
Dopo questo strenuo tentativo di arrampicata sugli specchi da parte dell’Agenzia delle Entrate, pur di cercare di confondere l’inconfondibile, vediamo di mettere un pochino di semplicissimo ordine. La questione, per anni oggetto del contendere, è quella assai nota della previsione di cui all’art. 12, comma 7, Legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), in base alla quale:
“Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
Giova, altresì, ricordare che, detta legge, all’art. 1, comma 1, stabilisce:
“Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”.
Le domande a cui dare risposta sono, allora, le seguenti:
1.      Quale è la conseguenza nel caso in cui l’Ufficio non rispetti il termine dei 60 giorni prima di emanare l’avviso di accertamento?
2.      Quali sono i motivi d’urgenza che legittimano l’emissione anticipata dell’avviso di accertamento e come deve esserne fornita prova da parte dell’Ufficio?
3.      Quali sono i tipi di accertamento, verifica, ispezione a cui si applica la norma in argomento?
Alla prima domanda, ha risposto compiutamente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza 18184/2013: l’avviso di accertamento è nullo. Senza se e senza ma:
“In conclusione, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: l’inosservanza del termine dilatorio di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sé l’illegittimità dell’atto emesso ante tempus”.
Alla prima parte della seconda domanda rispondono chiaramente le sopra richiamate pronunce della Cassazione (2587/2014 e 3142/2014): i motivi d’urgenza devono essere dipesi da fatto e/o condotta altrui (esempio: reiterate condotte penali tributarie del contribuente), non certo da meri problemi di decadenza dei termini di accertamento.
Alla seconda parte della domanda N. 2, risponde sempre la stessa sentenza delle Sezioni Unite: l’Ufficio ha l’onere di provare quali siano stati i motivi d’urgenza, fermo restando – per carità – che può fornire tale prova anche nel corso del giudizio. E ci mancherebbe: noi vogliamo sempre che tutte le parti del giudizio debbano essere messe in grado di difendersi compiutamente, perché solo così può trionfare la giustizia (non come succede nei riguardi dei contribuenti con riferimento, per esempio, a quell’ultimo aborto procedurale che risponde al nome di nuova mediazione obbligatoria: speriamo che la Consulta si pronunci al più presto e ponga termine definitivamente a quest’ennesima buffonata).
“Il vizio invalidante non consiste nella mera enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza deve essere provata dall’Ufficio”.
Alla terza e ultima domanda risponde, ove non fossero sufficienti le tante motivazioni delle varie sentenze già citate, la mera ragionevolezza: i 60 giorni sono fissati per dar la possibilità di svolgere il contraddittorio. Detto contraddittorio è obbligatoriamente prescritto in ogni tipologia di accertamento (inclusi quelli c.d. a tavolino; ossia: redditometro, parametri, studi di settore). A maggior ragione è obbligatorio in occasione di una qualunque altra verifica, ispezione, accertamento. Ergo, se un avviso di accertamento – un qualunque avviso di accertamento – viene emanato prima del decorso dei 60 giorni (termine prescritto per assolvere al legittimo contraddittorio), senza che vi siano motivi d’urgenza validi, provati dall’Ufficio, l’atto è inequivocabilmente nullo.
Questi sono i fatti. Le interpretazioni valgono meno di zero. Ci spiace per l’Ufficio…

giovedì 27 febbraio 2014

Affitti, si cambia di nuovo: sì al contante sotto i mille euro



Nel bizzarro panorama nostrano capita che avvengano dei repentini cambi di rotta, tali da farci sobbalzare sulle scomode poltrone dei nostri studi professionali; seppure, occorre riconoscerlo, a onor del vero, queste “improvvisate” ormai sono così frequenti che il sobbalzo, sussulto, trasalimento o quel che sia, dura solo pochi attimi, posto che abbiamo da tempo imparato a nostre spese come, nell’italica patria del diritto, l’unica cosa certa è che non c’è certezza.
Il recente caso del pagamento dei canoni di affitto ne costituisce uno dei tanti esempi.
Come sappiamo (Ved. sezione “News” del sito), una delle previsioni introdotte dalla recente Legge di stabilità per il 2014 ha imposto l'obbligo di effettuare il pagamento dei canoni di locazione degli immobili a uso abitativo con mezzi di pagamento diversi dal contante (esempio: bonifico bancario, assegno etc.), a prescindere dal relativo importo, derogando di fatto alla disposizione che fissa a 1.000,00 euro il limite per il pagamento in contanti (art. 49, del D.lgs. 231/97, da ultimo modificato dall'art. 12, del D.L. 201/2011). La normativa prescrive che restino esclusi solo i canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica e le locazioni di immobili strumentali.
Recentemente, però, il MEF, con la Nota n. 10492/DT del 5.2.2014, ha ridimensionato (anzi, riformato) tale previsione legislativa, evidenziando che:
-        il limite di 999,99 euro è l’unico che rileva ai fini delle sanzioni previste dal D.Lgs. 231/2007 (Antiriciclaggio);
-     sono considerate "critiche" solo le movimentazioni di contanti eccedenti la soglia di 999,99 euro (e non intermediate da soggetti autorizzati);
-  il fine della tracciabilità delle transazioni in contanti tra inquilino e proprietario, e dell’asseverazione dei patti contrattuali per l’ottenimento di agevolazioni e detrazioni fiscali, può essere soddisfatto con una prova documentale idonea ad attestare in modo chiaro e inequivocabile la destinazione del denaro contante per il pagamento del canone (ossia, la semplice ricevuta della somma percepita a tale titolo).
Si dovrebbe, pertanto, desumere che, in presenza di un canone di locazione a uso abitativo pagato in contanti per un importo fino a 999,99 euro, il locatore, rilasciando la relativa specifica ricevuta, soddisfi sia l’obbligo di tracciabilità dei pagamenti, sia la verifica sul diritto di proprietari e inquilini ad avere le agevolazioni fiscali, e, conseguentemente, non sia soggetto ad alcuna sanzione. Fermo restando che, per importi pari o superiori a 1.000,00 euro, il locatore dovrà sempre continuare a utilizzare obbligatoriamente gli strumenti di pagamento tracciabili (bonifico bancario, assegno etc.).
L’uso iniziale del condizionale mi pare doveroso, posto che non mi risulta sia stata modificata (perlomeno, non ancora) la Carta Costituzionale e, conseguentemente, l’obbligo di legiferare continua a essere prerogativa del Parlamento e non dei ministeri; ciò, è ovvio, indipendentemente da questioni dottrinarie concernenti l’eventuale valenza delle norme contenute in leggi ordinarie che vanno a modificarne altre precedenti inserite in leggi speciali.
Senonché, nel caso di specie, in ossequio alla Legge di Stabilità, gli eventuali pagamenti in contanti comporterebbero l’obbligo di segnalazione al MEF; ma il MEF, scrive nella nota menzionata, che non bisogna effettuare queste segnalazioni perché l’operazione in questione è del tutto legittima.
Verrebbe da domandarsi: ma con tante contorte norme che abbisognano di circolari interpretative per essere opportunamente spiegate, possibile che si debba intervenire (e, dunque, confondere, non certo semplificare) proprio quelle poche che appaiono in vero molto chiare? indipendentemente dal fatto che siano da reputare positive o negative.
E allora: come comportarsi?
Il consiglio, naturalmente, è quello di adottare la massima prudenza e, tra vedere e non vedere, pagare con mezzi tracciabili pure nelle ipotesi di importi inferiori ai 1.000,00 euro; per quanto, dubito fortemente che chi dovesse pagare in contanti, ammesso e non concesso venisse “segnalato”, ne subirebbe una qualche conseguente sanzione; non foss’altro per l’enorme quantità di segnalazioni di ben altra rilevanza che quotidianamente arrivano al MEF e che risulta sostanzialmente impossibile poi gestire nella pratica.
Certo, inutile nascondere come in tutti noi permanga l’amletico dubbio concernente tale ambiguità comportamentale da parte di Parlamento e ministero: cui prodest? 

Attenzione: con un c/c web, è obbligatorio compilare il modello RW dell'Unico



Come abbiamo già avuto modo di comunicare in precedenza nella sezione “News” del sito, è stata congelata la ritenuta del 20% sui bonifici esteri, con la nota del ministero dell'economia del 19/02/2014; resta, però, ancora l'obbligo, per chi possiede dei conti on line con banche estere, di compilare il quadro RW.
Le nuove norme sul monitoraggio fiscale (legge n. 97/2013), infatti, hanno eliminato la soglia (precedentemente fissata in 10 mila euro) oltre la quale sarebbe stato necessario compilare il noto quadro RW del Modello Unico.
L'effetto paradossale che, restando così le cose, si verrebbe a creare è che chiunque possegga un conto con un istituto di credito che risulti avere sede all’estero (esempio più comune: account Paypal per gli acquisti via Internet, dove in genere circolano pochi dollari/euro), anche se di regola non obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi (perché magari ha solo un CUD e la casa di abitazione), diventerebbe obbligato a presentare il Modello Unico e a compilare il quadro RW, in quanto, per l’Amministrazione Finanziaria, è considerato possessore di evidenze finanziarie estere.
Parrebbe – così, almeno, riportano i giornali specializzati – che l'Amministrazione Finanziaria stia cercando una soluzione. Per il momento, però, la situazione è questa.
Nella legislazione francese, a esempio, si è scelto di esonerare dalla compilazione dell'equivalente quadro RW italiano, quei contribuenti che hanno dei conti per i soli pagamenti e che movimentano dare e avere entro una certa soglia. Per tutti gli altri arrivano invece le nuove comunicazioni.
In realtà, anche in Italia esisteva prima una soglia; sarebbe bastato semplicemente limitarsi a diminuire tale limite minimo, anziché eliminarlo del tutto.
“Una volta trovata la soluzione, peraltro, è necessario individuare pure la strada normativa per attuare la modifica”, riportano le sopra menzionate testate giornalistiche.
Sinceramente, non comprendiamo: in materia analoga, basterebbe ricordare a titolo di esempio che con altrettanti provvedimenti normativi sono state introdotte le soglie per lo Spesometro e il limite dei 500 euro per le comunicazioni black list.
Insomma, a parere di chi scrive, davvero non si capisce quale sia tale difficoltà normativa che possa impedire di attuare un semplicissimo provvedimento atto a eliminare un evidente precedente vuoto legislativo, che – se non si interverrà – creerà solo inutili problemi e sprechi a tutti i contribuenti.

mercoledì 26 febbraio 2014

Crisi economica e vendite sottocosto



La Corte di Cassazione nella sentenza n. 16695 del 3 luglio 2013 si è occupata di un caso interessante concernente l’eventuale anti-economicità delle vendite sottocosto di un’impresa in crisi. L’Amministrazione Finanziaria aveva contestato alla società, poi dichiarata fallita, l’omesso versamento IVA, eccependo l’esistenza in via presuntiva ex articolo 54, comma 2, DPR 633/1972, di maggiori corrispettivi percepiti in relazione a una vendita di prodotti, per il solo fatto che essa era avvenuta a un prezzo inferiore rispetto al costo di produzione.
In Cassazione, la società eccepiva che la contestazione era stata sollevata dall’Amministrazione senza considerare affatto che l’anti-economicità dell’attività svolta trovava proprio una precisa e obiettiva ragione e giustificazione nella crisi in cui l’impresa si trovava attanagliata, tanto poi da sfociare nel suo fallimento.
La Suprema Corte, richiamando anche propria precedente giurisprudenza (Cassazione n. 6849/2009), ha sottolineato dapprima che in tema di IVA, per presumere ex articolo 54, comma 2, DPR 633/1972, l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati e quindi assoggettati a imposta “non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti”. Nel caso in questione, poi, constatato lo stato di crisi dell’impresa, risultava del tutto evidente che ben altro era il prezzo che l’impresa avrebbe potuto ricavare da un bene quando esso fosse stato immesso nel circuito da un’impresa in attività, rispetto a quello a cui lo stesso avrebbe potuto essere realizzato allorquando, a esempio, sarebbe stato inserito nell’ambito di una vendita fallimentare o simile.
Di conseguenza, la vendita sottocosto dell’impresa in stato di crisi, salvo che ricorrano ben altre circostanze gravi, precise e concordanti, appare come una condotta fiscalmente non stigmatizzabile proprio in ragione dello stato dell’impresa in cui l’operazione economica deve essere necessariamente contestualizzata per una sua obiettiva valutazione. La quale, non potrà prescindere dal considerare le mutate esigenze dell’impresa, laddove l’aspetto finanziario diventa spesso preminente rispetto a quello economico, tanto da giustificare un sacrificio della redditività senza che ciò debba necessariamente generare fattispecie suscettibili di accertamenti di natura tributaria.
Si tratta, a ben vedere, di un principio naturale, sul quale la dottrina si è sempre largamente battuta. Registriamo, dunque, finalmente con piacere il consolidarsi in proposito di un certo orientamento della Giurisprudenza di legittimità.