lunedì 31 marzo 2014
venerdì 28 marzo 2014
Il Redditometro e le “spese per elementi certi”
Personalmente sono convinto che il principio su cui si basa
il Redditometro sia indubitabilmente corretto: un individuo dev’essere sempre
in grado di dimostrare la lecita provenienza dei denari necessari per
l’acquisto dei beni che possiede e per il sostenimento delle spese effettuate,
nel caso in cui il reddito dichiarato non sia a ciò sufficiente.
Senonché, tale ineccepibile strumento di accertamento pare
essere scambiato dal Fisco, spesso e volentieri, come una sorta di arma
impropria da usare in maniera tutt’altro che commendevole.
In premessa, occorre ritornare un pochino indietro e
riferirsi all’intervento del Garante, il quale aveva bacchettato l’Agenzia
delle Entrate in materia di Redditometro, posto che l’utilizzo improprio degli
indici ISTAT (descritti come: “potenzialmente molto imprecisi se attribuiti a
un singolo individuo, oltre che eccessivamente invasivi della sfera privata dei
contribuenti”) avrebbe dovuto comportare l’esclusione dal Redditometro stesso di
tutte quelle spese il cui calcolo si basi unicamente sulle medie ISTAT.
Dopo tale ammonimento, l’Agenzia, nella sua circolare
6/E/2014, ha ribadito che nell’accertamento effettuato secondo il “Nuovo
Redditometro” verranno utilizzate anche le c. d. “spese per elementi certi”,
non i soli indici ISTAT tout court.
Le “spese per elementi certi” sono quelle sostenute per il mantenimento
di abitazioni e mezzi di trasporto (quali autovetture, imbarcazioni, aeromobili
ecc.), determinate applicando, a parametri oggettivi (esempio: il possesso di
un immobile e le sue caratteristiche tecniche), i valori medi ISTAT per il
nucleo familiare di appartenenza. Le modalità in base a cui si calcolano queste
spese erano già state illustrate in una precedenza Circolare (24/E/2013), ed è
il seguente:
Calcolo della Spesa Media Unitaria ISTAT (SMU):
spesa media mensile ISTAT del nucleo familiare di
appartenenza (secondo gli indici ISTAT pubblicati: dato presunto “X”)
diviso
consistenza media delle abitazioni (stabilita come pari a 75
mq.).
Da cui si ottiene il totale della spesa finale effettiva da
attribuire al contribuente nell’anno considerato, moltiplicando:
la SMU ottenuta, per gli effettivi metri quadri
dell’abitazione del contribuente, per i mesi di possesso nell’anno, ed
eventualmente riproporzionando l’importo finale in funzione della percentuale
di possesso dell’immobile (nel caso, a esempio, si tratti di un appartamento
cointestato a più soggetti).
Nulla quaestio sul ragionamento in base al quale, se si
possiede una casa, si sostengono gioco forza delle spese certe per il
suo mantenimento. Ed è corretto che – passatemi la ridondanza rafforzativa del
concetto – un contribuente venga accertato (che deriva appunto da “certo”)
sul fondamento delle spese certe che ha (quindi, di certo),
sopportato, indipendentemente dal fatto che, poi, con qualche stratagemma, sia
illegittimamente riuscito a non farle “risultare”.
Ma, nel caso di specie, non c’è bisogno di essere dei grandi
esperti di matematica per comprendere subito che l’ammontare di dette spese,
così determinato, è del tutto presunto e mai assolutamente certo: gli elementi
sono certi (la casa); le spese così individuate sono del tutto presunte (indici
ISTAT sulle spese per il mantenimento).
Nell’ipotesi delle autovetture, il sistema di calcolo è lo
stesso, salvo per il fatto che ci si basa sui kW., anziché sui mq.
A titolo indicativo, una casa da 150 mq. “costa” circa 2.500
euro l’anno; un’auto da 170 kW. circa 4.000 euro l’anno.
È evidente che dissentiamo fortemente da questo distorto e,
soprattutto, ingiusto uso del Redditometro.
Posto, infatti, che:
A)
Si
parte dall’assunto di colpire le spese certe sopportate;
B)
È
acclarato come gli indici ISTAT siano dei valori presunti e non certi;
ogniqualvolta, il calcolo venga eseguito prendendo in
considerazione un valore presunto, non potrà mai fornire un risultato certo, ma
sempre e solo presunto.
L’Agenzia stravolge lo strumento di accertamento, giocando
sul seguente equivoco:
Non si devono accertare i contribuenti sulle medie ISTAT perché
non sono certe? Benissimo! Allora li accertiamo applicando gli indici generali
ISTAT alle spese di mantenimento degli elementi certi, quali case e auto.
E dove sta la differenza?
Se Y (spesa del contribuente) = X (media ISTAT), è
un’equazione errata perché X non è un valore certo e, dunque, Y non potrà mai
rappresentare la spesa certa sostenuta dal contribuente;
modificando detta equazione come segue:
Y (spesa del contribuente) = X (media ISTAT) di 150 (mq.
Casa), il risultato, in quanto sempre dipendente dall’incognita X (dato
presunto), non potrà che essere parimenti presunto e fuorviante. Così operando,
l’unica cosa certa è che si addiviene a un risultato non certo.
Ergo, anche tale seconda equazione è incontrovertibilmente
errata.
Il punto, oltre tutto, è che, rebus sic stantibus, fornire la
prova contraria da parte del contribuente diventa, di fatto, praticamente
impossibile.
L’unico consiglio che si può dare in questi casi è quello di
non sottovalutare mai la fase del contraddittorio, ma anzi portarla avanti con
grande presenza e insistenza, cercando sempre di documentare tutte le effettive
spese sostenute per i c. d. elementi certi (mantenimento casa, auto etc.) in
modo congruo; per esempio: far vedere che, effettivamente, nell’anno, ci sono state
delle ricevute che attengono a tali spese, essendo poco credibile che,
nell’arco di 12 mesi, non si sia mai dovuto pagare alcunché.
martedì 25 marzo 2014
Società cancellata dal Registro delle Imprese
La sentenza della Corte di Cassazione n. 665/2014 consolida
l’orientamento già espresso nel 2010 e nel 2013 (in tale ultima occasione, a
Sezioni Unite), in base al quale: “La cancellazione volontaria dal registro
delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica
l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente
agire o essere convenuta in giudizio”. Ciononostante, occorre registrare come l’Agenzia
delle Entrate continui spesso a chiamare in giudizio le società estinte. Al
riguardo, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare:
1.
si
determina un evento interruttivo del processo se l’estinzione della società si
verifica in corso di giudizio e lo stesso può continuare solo attraverso un
atto di prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci;
2.
se
l’evento estintivo della società non venisse fatto rilevare in giudizio,
l’eventuale impugnazione della sentenza deve essere indirizzata o provenire, a
pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla
società estinta (la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva,
si trasferisce automaticamente, ex art. 110 Cod. Proc. Civ.);
3.
non
solo i soci, ma anche il liquidatore della società può essere chiamato a
rappresentare la società estinta.
La Cassazione afferma: “La nullità assoluta delle sentenze di
primo e secondo grado, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del
giudizio, per carenza di legittimazione attiva della parte privata ab origine.
Con la conseguenza che, ancorché l’ex liquidatore della società cancellata non
avesse eventualmente impugnato i pronunciamenti, nessun pregiudizio poteva
comunque derivarne, atteso che nessuna esecuzione forzata era possibile
promuovere a carico della stessa società estinta”.
In ogni caso, occorre evidenziare come, ai sensi dell’art.
2495 cod. civ., i soci e i liquidatori possano essere chiamati a rispondere dei
crediti non soddisfatti di una società estinta. In tal caso, l’Agenzia delle
Entrate non può notificare direttamente la cartella di pagamento emessa nei
confronti della società, ai soci o all’ex liquidatore della società stessa, ma
dovrà prima obbligatoriamente accertare la responsabilità di questi ultimi
attraverso un atto separato.
venerdì 21 marzo 2014
Redditometro: Giustificazioni relative agli incrementi patrimoniali.
La Corte di Cassazione N. 6396 del 19/03/2014, confermando un
precedente orientamento, afferma che la prova contraria, rispetto agli
incrementi patrimoniali contestati dall’Ufficio in base ad accertamento
redditometrico, può semplicemente consistere nel documentare la disponibilità
di tali ulteriori redditi, senza necessità di dimostrare anche la diretta
connessione dell’impiego dei medesimi per sostenere le spese straordinarie
contestate.
Tale sentenza appare particolarmente importante perché va a
minare la tesi principale sempre adottata dal Fisco concernente, appunto, tale
connessione diretta. Nelle costituzioni in giudizio operate dagli Uffici
dell’Agenzia delle Entrate, infatti, si tende a sostenere i propri atti di
accertamento fondamentalmente sul fatto che: «Senza la prova anche del nesso
eziologico tra possesso di redditi e spesa “per incrementi patrimoniali”,
questa spesa (siccome univocamente indicativa, per presunzione di legge, della
percezione di un reddito corrispondente) continuerebbe a produrre i suoi
effetti presuntivi a danno del contribuente, non avendo lo stesso superato la
forza della presunzione iuris tantum (“la stessa si presume”) posta, a suo svantaggio
dalla norma».
Ebbene, è evidente come tale indirizzo, più volte criticato
anche in dottrina, si spinga ben oltre il tenore letterale della norma. Correttamente
la Suprema Corte, nella sentenza in argomento, ha osservato che il comma 6, dell’art.
38, del DPR n. 600 del 1973, nella versione vigente, dispone testualmente: “Il
contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione
dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile
sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi
soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e
la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. La
disposizione in esame, pertanto, non impone affatto la dimostrazione
dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le
spese di incremento, ma si limita a richiedere al contribuente di vincere la
presunzione in base alla quale il reddito dichiarato non sia stato sufficiente
per realizzare gli acquisti. Il che, precisa la Corte, significa che
nessun’altra prova deve dare la parte contribuente circa l’effettiva
destinazione del reddito (esente, sottoposto a tassazione separata etc.) per gli
incrementi patrimoniali, se non la dimostrazione dell’effettiva esistenza di
tali redditi. In caso contrario, ossia supportando come valida la tesi del
Fisco, diventerebbe in pratica pressoché impossibile da parte del contribuente
riuscire a fornire una prova idonea.
Ovviamente, in sede di difesa, occorrerà comunque, per che si
producano validi effetti probatori, che tali extra-redditi siano stati ricevuti
(ed erano dunque disponibili) prima di effettuare le spese per gli incrementi
patrimoniali, non essendo certo sufficiente un astratto e generico riferimento
alla capacità reddituale del contribuente nel periodo di imposta oggetto di
accertamento. Per quanto occorra rappresentare come, a esempio, in caso di
donazione tra familiari, la Suprema Corte ha ritenuto non indispensabile la
stesura di una scrittura privata autenticata, posto che la data certa si può
altresì facilmente evincere dal bonifico effettuato. Evidentemente, tutti i
movimenti di reddito dovranno ineludibilmente avvenire tramite movimenti
bancari tracciati.
Corre l’obbligo di precisare che la sentenza in questione si
riferisce ancora a un accertamento relativo all’anno 2008, dunque soggetto al
“vecchio” redditometro. Ciononostante, a parere di chi scrive, il principio
generale può benissimo essere esteso nella sostanza anche al “nuovo”
redditometro (applicabile per gli anni di imposta dal 2009 in avanti – le cui
prime 20.000 lettere stanno partendo in questi giorni). In effetti, da un lato
la Tabella A del D.M. 24/12/2012 prevede
che gli incrementi patrimoniali siano considerati scomputando i disinvestimenti
netti dei quattro anni precedenti (o anche di più, secondo la circolare 24/E/2013);
dall’altro l’art. 38, comma 4, D.P.R. 600/1973 riconosce espressamente la
possibilità di giustificare tutte le spese contestate dal fisco con qualsiasi
reddito legalmente escluso dalla formazione della base imponibile.
giovedì 20 marzo 2014
A.P.E. edifici: Attestato di Prestazione Energetica
Il D.L. n. 63/2013 (cosiddetto "Decreto energia", convertito
nella Legge n. 90/2013) in vigore dal 4 agosto 2013, ha sostituito il
precedente 'Attestato di Certificazione Energetica, necessario per le
compravendite o locazioni immobiliari, con l’Attestato di Prestazione
Energetica (A.P.E.).
Come indicato dall'art. 2, comma 1, lett. l-bis, D. Lgs. n. 192/2005,
modificato dal D.L. n. 63/2013, l'Attestato di Prestazione Energetica deve
attestare la prestazione energetica di un edificio, ossia il tipo di consumo
energetico previsto sulla base di specifici parametri e fornire raccomandazioni
per il miglioramento dell'efficienza. L'APE deve essere allegato, a pena la
nullità degli stessi contratti, nei seguenti atti:
contratto di compravendita;
atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito (esempio: donazione);
contratti di locazione, anche per locazioni turistiche, nuovi (non è
necessario in caso di rinnovo o proroga di un precedente contratto).
L'articolo 12 del Dl 63/2013 prevede la sanzione amministrativa tra 300
euro e 1.800 euro per il proprietario che, in caso di nuova locazione, non doti
l'immobile dell’APE. Anche gli operatori immobiliari sono soggetti ad ammenda
nel caso espongano o pubblichino inserzioni prive dell'indicazione relativa
alla classe energetica dell'edifico come risulta appunto dall'APE.
L'APE ha una validità temporale massima di 10 anni, salvo il caso di
interventi di ristrutturazione o riqualificazione energetica dell'edificio o
dell'unità immobiliare (esempio: sostituzione degli infissi o dell'impianto di
riscaldamento) che porti a una modifica della prestazione stessa.
L'obbligo non sussiste nel caso sia già disponibile il vecchio A.C.E.
(Attestato di Certificazione Energetica), rilasciato prima del 5 giugno 2013 (e
ancora in corso di validità) conformemente alla direttiva 2002/91/CE.
Non sono, invece, compresi nell'obbligo di presentazione dell'APE I
contratti immobiliari relativi a:
fabbricati isolati con una superficie inferiore a 50 metri quadrati;
fabbricati industriali e artigianali, quando gli ambienti sono
riscaldati per esigenze del processo produttivo (esempio: una serra);
fabbricati agricoli non residenziali sprovvisti di impianti di
climatizzazione;
edifici adibiti a luoghi di culto;
edifici il cui utilizzo non prevede l'impiego di sistemi termici, quali:
box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi e strutture
stagionali a protezione degli impianti sportivi (fatta eccezione per le
porzioni adibite ad uffici);
edifici non destinati alla permanenza di persone, quali: garage,
depositi, cantine, centrali termiche, locali contatori, legnaie, stalle;
fabbricati "al grezzo", nonché edifici venduti "al
rustico", cioè privi delle rifiniture e degli impianti tecnologici;
edifici "marginali" (esempio: portici, pompeiane, legnaie);
edifici inagibili che, come tali, non comportino un consumo energetico (esempio:
fabbricati in disuso).
Con riferimento all'imposta di registro, l'Agenzia precisa nella recente
Risoluzione 83/E/2013 che i soggetti tenuti alla registrazione del contratto di
locazione possono presentare in allegato l'APE, ma, trattandosi di un atto per
il quale non vige l'obbligo di registrazione, l’Ufficio dell’Agenzia procederà
alla registrazione del contratto, e dell’attestato allegato, con un’unica applicazione
dell’imposta di registro. Se, invece, il soggetto presenta l'APE in data
successiva alla registrazione del contratto di locazione, vi si applica
l'imposta di registro nella misura fissa di € 168 (€ 200 dal 1° gennaio 2014).
La risoluzione precisa ancora che chi registra un contratto di locazione in
modalità telematica sul sito dell'Agenzia delle Entrate (ossia: canali
"Locazioni web", "SIRIA" e "IRIS"), dato che con
tali sistemi non è consentito allegare documenti, potrà presentare
successivamente l'APE all'Ufficio in forma cartacea (insieme alla ricevuta di
registrazione) e l'Ufficio lo registrerà senza applicazione dell'imposta di
registro.
Con riguardo all'imposta di bollo, l'Agenzia delle Entrate comunica che se
l'APE è allegato in originale o in copia semplice al contratto di locazione non
deve essere assoggettato all’imposta di bollo. E' soggetto al bollo, invece,
nella misura di 16 euro per ogni foglio se viene allegata copia autenticata
dell'APE con dichiarazione di conformità all’originale rilasciata da un
pubblico ufficiale.
La normativa pare di stretta attualità avuto riguardo ai continui
problemi di inefficienza strutturale degli edifici (costruiti e in fase di
costruzione) messi a nudo dagli eventi naturali. Ci pare, però, che la situazione
immobiliare complessiva sia ancora in una fase del tutto disorganizzata ab
origine e, probabilmente, sarebbe stato maggiormente opportuno provvedere prima
a livello legislativo con opportune regole che imponessero un passaggio più
graduale sulle svariate categorie di immobili, considerato che le situazioni
nei vari comuni italiani risultano essere assai differenti fra di loro. Il
rischio, infatti, potrebbe essere quello di avere un notevole blocco nella
stipula di contratti afferenti situazioni ordinarie pregresse di immobili
talmente datati, per i quali appare arduo dotarsi in tempi ragionevoli delle
prescritte attestazioni (vista, altresì, la burocrazia locale). Elemento che
sicuramente non aiuta potenziali sviluppi economici del settore.
Ciononostante, la ratio della norma è del tutto condivisibile e si spera
che, quanto meno, possa servire a dare il via a un definitivo cambio di rotta nelle
tecniche di costruzione, nonché a una maggiore oculata scelta dei materiali
utilizzati, in modo da garantire quella serietà e professionalità che dovrebbe
contraddistinguere sempre tutti i costruttori (e non solo una piccola parte
degli stessi), proprio anche per assicurare prima di tutto alle medesime
imprese condizioni di concorrenzialità paritarie.
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