venerdì 28 marzo 2014

Il Redditometro e le “spese per elementi certi”



Personalmente sono convinto che il principio su cui si basa il Redditometro sia indubitabilmente corretto: un individuo dev’essere sempre in grado di dimostrare la lecita provenienza dei denari necessari per l’acquisto dei beni che possiede e per il sostenimento delle spese effettuate, nel caso in cui il reddito dichiarato non sia a ciò sufficiente.
Senonché, tale ineccepibile strumento di accertamento pare essere scambiato dal Fisco, spesso e volentieri, come una sorta di arma impropria da usare in maniera tutt’altro che commendevole.
In premessa, occorre ritornare un pochino indietro e riferirsi all’intervento del Garante, il quale aveva bacchettato l’Agenzia delle Entrate in materia di Redditometro, posto che l’utilizzo improprio degli indici ISTAT (descritti come: “potenzialmente molto imprecisi se attribuiti a un singolo individuo, oltre che eccessivamente invasivi della sfera privata dei contribuenti”) avrebbe dovuto comportare l’esclusione dal Redditometro stesso di tutte quelle spese il cui calcolo si basi unicamente sulle medie ISTAT.
Dopo tale ammonimento, l’Agenzia, nella sua circolare 6/E/2014, ha ribadito che nell’accertamento effettuato secondo il “Nuovo Redditometro” verranno utilizzate anche le c. d. “spese per elementi certi”, non i soli indici ISTAT tout court.
Le “spese per elementi certi” sono quelle sostenute per il mantenimento di abitazioni e mezzi di trasporto (quali autovetture, imbarcazioni, aeromobili ecc.), determinate applicando, a parametri oggettivi (esempio: il possesso di un immobile e le sue caratteristiche tecniche), i valori medi ISTAT per il nucleo familiare di appartenenza. Le modalità in base a cui si calcolano queste spese erano già state illustrate in una precedenza Circolare (24/E/2013), ed è il seguente:
Calcolo della Spesa Media Unitaria ISTAT (SMU):
spesa media mensile ISTAT del nucleo familiare di appartenenza (secondo gli indici ISTAT pubblicati: dato presunto “X”)
diviso
consistenza media delle abitazioni (stabilita come pari a 75 mq.).
Da cui si ottiene il totale della spesa finale effettiva da attribuire al contribuente nell’anno considerato, moltiplicando:
la SMU ottenuta, per gli effettivi metri quadri dell’abitazione del contribuente, per i mesi di possesso nell’anno, ed eventualmente riproporzionando l’importo finale in funzione della percentuale di possesso dell’immobile (nel caso, a esempio, si tratti di un appartamento cointestato a più soggetti).
Nulla quaestio sul ragionamento in base al quale, se si possiede una casa, si sostengono gioco forza delle spese certe per il suo mantenimento. Ed è corretto che – passatemi la ridondanza rafforzativa del concetto – un contribuente venga accertato (che deriva appunto da “certo”) sul fondamento delle spese certe che ha (quindi, di certo), sopportato, indipendentemente dal fatto che, poi, con qualche stratagemma, sia illegittimamente riuscito a non farle “risultare”. 
Ma, nel caso di specie, non c’è bisogno di essere dei grandi esperti di matematica per comprendere subito che l’ammontare di dette spese, così determinato, è del tutto presunto e mai assolutamente certo: gli elementi sono certi (la casa); le spese così individuate sono del tutto presunte (indici ISTAT sulle spese per il mantenimento).
Nell’ipotesi delle autovetture, il sistema di calcolo è lo stesso, salvo per il fatto che ci si basa sui kW., anziché sui mq.
A titolo indicativo, una casa da 150 mq. “costa” circa 2.500 euro l’anno; un’auto da 170 kW. circa 4.000 euro l’anno.
È evidente che dissentiamo fortemente da questo distorto e, soprattutto, ingiusto uso del Redditometro.
Posto, infatti, che:
A)     Si parte dall’assunto di colpire le spese certe sopportate;
B)     È acclarato come gli indici ISTAT siano dei valori presunti e non certi;
ogniqualvolta, il calcolo venga eseguito prendendo in considerazione un valore presunto, non potrà mai fornire un risultato certo, ma sempre e solo presunto.
L’Agenzia stravolge lo strumento di accertamento, giocando sul seguente equivoco:
Non si devono accertare i contribuenti sulle medie ISTAT perché non sono certe? Benissimo! Allora li accertiamo applicando gli indici generali ISTAT alle spese di mantenimento degli elementi certi, quali case e auto.
E dove sta la differenza?
Se Y (spesa del contribuente) = X (media ISTAT), è un’equazione errata perché X non è un valore certo e, dunque, Y non potrà mai rappresentare la spesa certa sostenuta dal contribuente;
modificando detta equazione come segue:
Y (spesa del contribuente) = X (media ISTAT) di 150 (mq. Casa), il risultato, in quanto sempre dipendente dall’incognita X (dato presunto), non potrà che essere parimenti presunto e fuorviante. Così operando, l’unica cosa certa è che si addiviene a un risultato non certo.
Ergo, anche tale seconda equazione è incontrovertibilmente errata.
Il punto, oltre tutto, è che, rebus sic stantibus, fornire la prova contraria da parte del contribuente diventa, di fatto, praticamente impossibile.
L’unico consiglio che si può dare in questi casi è quello di non sottovalutare mai la fase del contraddittorio, ma anzi portarla avanti con grande presenza e insistenza, cercando sempre di documentare tutte le effettive spese sostenute per i c. d. elementi certi (mantenimento casa, auto etc.) in modo congruo; per esempio: far vedere che, effettivamente, nell’anno, ci sono state delle ricevute che attengono a tali spese, essendo poco credibile che, nell’arco di 12 mesi, non si sia mai dovuto pagare alcunché. 

martedì 25 marzo 2014

Società cancellata dal Registro delle Imprese



La sentenza della Corte di Cassazione n. 665/2014 consolida l’orientamento già espresso nel 2010 e nel 2013 (in tale ultima occasione, a Sezioni Unite), in base al quale: “La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio”. Ciononostante, occorre registrare come l’Agenzia delle Entrate continui spesso a chiamare in giudizio le società estinte. Al riguardo, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare:
1.      si determina un evento interruttivo del processo se l’estinzione della società si verifica in corso di giudizio e lo stesso può continuare solo attraverso un atto di prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci;
2.      se l’evento estintivo della società non venisse fatto rilevare in giudizio, l’eventuale impugnazione della sentenza deve essere indirizzata o provenire, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta (la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art. 110 Cod. Proc. Civ.);
3.      non solo i soci, ma anche il liquidatore della società può essere chiamato a rappresentare la società estinta.
La Cassazione afferma: “La nullità assoluta delle sentenze di primo e secondo grado, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, per carenza di legittimazione attiva della parte privata ab origine. Con la conseguenza che, ancorché l’ex liquidatore della società cancellata non avesse eventualmente impugnato i pronunciamenti, nessun pregiudizio poteva comunque derivarne, atteso che nessuna esecuzione forzata era possibile promuovere a carico della stessa società estinta”.
In ogni caso, occorre evidenziare come, ai sensi dell’art. 2495 cod. civ., i soci e i liquidatori possano essere chiamati a rispondere dei crediti non soddisfatti di una società estinta. In tal caso, l’Agenzia delle Entrate non può notificare direttamente la cartella di pagamento emessa nei confronti della società, ai soci o all’ex liquidatore della società stessa, ma dovrà prima obbligatoriamente accertare la responsabilità di questi ultimi attraverso un atto separato.

venerdì 21 marzo 2014

Redditometro: Giustificazioni relative agli incrementi patrimoniali.



La Corte di Cassazione N. 6396 del 19/03/2014, confermando un precedente orientamento, afferma che la prova contraria, rispetto agli incrementi patrimoniali contestati dall’Ufficio in base ad accertamento redditometrico, può semplicemente consistere nel documentare la disponibilità di tali ulteriori redditi, senza necessità di dimostrare anche la diretta connessione dell’impiego dei medesimi per sostenere le spese straordinarie contestate.
Tale sentenza appare particolarmente importante perché va a minare la tesi principale sempre adottata dal Fisco concernente, appunto, tale connessione diretta. Nelle costituzioni in giudizio operate dagli Uffici dell’Agenzia delle Entrate, infatti, si tende a sostenere i propri atti di accertamento fondamentalmente sul fatto che: «Senza la prova anche del nesso eziologico tra possesso di redditi e spesa “per incrementi patrimoniali”, questa spesa (siccome univocamente indicativa, per presunzione di legge, della percezione di un reddito corrispondente) continuerebbe a produrre i suoi effetti presuntivi a danno del contribuente, non avendo lo stesso superato la forza della presunzione iuris tantum (“la stessa si presume”) posta, a suo svantaggio dalla norma».
Ebbene, è evidente come tale indirizzo, più volte criticato anche in dottrina, si spinga ben oltre il tenore letterale della norma. Correttamente la Suprema Corte, nella sentenza in argomento, ha osservato che il comma 6, dell’art. 38, del DPR n. 600 del 1973, nella versione vigente, dispone testualmente: “Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. La disposizione in esame, pertanto, non impone affatto la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le spese di incremento, ma si limita a richiedere al contribuente di vincere la presunzione in base alla quale il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti. Il che, precisa la Corte, significa che nessun’altra prova deve dare la parte contribuente circa l’effettiva destinazione del reddito (esente, sottoposto a tassazione separata etc.) per gli incrementi patrimoniali, se non la dimostrazione dell’effettiva esistenza di tali redditi. In caso contrario, ossia supportando come valida la tesi del Fisco, diventerebbe in pratica pressoché impossibile da parte del contribuente riuscire a fornire una prova idonea.
Ovviamente, in sede di difesa, occorrerà comunque, per che si producano validi effetti probatori, che tali extra-redditi siano stati ricevuti (ed erano dunque disponibili) prima di effettuare le spese per gli incrementi patrimoniali, non essendo certo sufficiente un astratto e generico riferimento alla capacità reddituale del contribuente nel periodo di imposta oggetto di accertamento. Per quanto occorra rappresentare come, a esempio, in caso di donazione tra familiari, la Suprema Corte ha ritenuto non indispensabile la stesura di una scrittura privata autenticata, posto che la data certa si può altresì facilmente evincere dal bonifico effettuato. Evidentemente, tutti i movimenti di reddito dovranno ineludibilmente avvenire tramite movimenti bancari tracciati.
Corre l’obbligo di precisare che la sentenza in questione si riferisce ancora a un accertamento relativo all’anno 2008, dunque soggetto al “vecchio” redditometro. Ciononostante, a parere di chi scrive, il principio generale può benissimo essere esteso nella sostanza anche al “nuovo” redditometro (applicabile per gli anni di imposta dal 2009 in avanti – le cui prime 20.000 lettere stanno partendo in questi giorni). In effetti, da un lato la Tabella A del  D.M. 24/12/2012 prevede che gli incrementi patrimoniali siano considerati scomputando i disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti (o anche di più, secondo la circolare 24/E/2013); dall’altro l’art. 38, comma 4, D.P.R. 600/1973 riconosce espressamente la possibilità di giustificare tutte le spese contestate dal fisco con qualsiasi reddito legalmente escluso dalla formazione della base imponibile.

giovedì 20 marzo 2014

A.P.E. edifici: Attestato di Prestazione Energetica



Il D.L. n. 63/2013 (cosiddetto "Decreto energia", convertito nella Legge n. 90/2013) in vigore dal 4 agosto 2013, ha sostituito il precedente 'Attestato di Certificazione Energetica, necessario per le compravendite o locazioni immobiliari, con l’Attestato di Prestazione Energetica (A.P.E.).
Come indicato dall'art. 2, comma 1, lett. l-bis, D. Lgs. n. 192/2005, modificato dal D.L. n. 63/2013, l'Attestato di Prestazione Energetica deve attestare la prestazione energetica di un edificio, ossia il tipo di consumo energetico previsto sulla base di specifici parametri e fornire raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza. L'APE deve essere allegato, a pena la nullità degli stessi contratti, nei seguenti atti:
contratto di compravendita;
atti di trasferimento di immobili a titolo gratuito (esempio: donazione);
contratti di locazione, anche per locazioni turistiche, nuovi (non è necessario in caso di rinnovo o proroga di un precedente contratto).
L'articolo 12 del Dl 63/2013 prevede la sanzione amministrativa tra 300 euro e 1.800 euro per il proprietario che, in caso di nuova locazione, non doti l'immobile dell’APE. Anche gli operatori immobiliari sono soggetti ad ammenda nel caso espongano o pubblichino inserzioni prive dell'indicazione relativa alla classe energetica dell'edifico come risulta appunto dall'APE.
L'APE ha una validità temporale massima di 10 anni, salvo il caso di interventi di ristrutturazione o riqualificazione energetica dell'edificio o dell'unità immobiliare (esempio: sostituzione degli infissi o dell'impianto di riscaldamento) che porti a una modifica della prestazione stessa.
L'obbligo non sussiste nel caso sia già disponibile il vecchio A.C.E. (Attestato di Certificazione Energetica), rilasciato prima del 5 giugno 2013 (e ancora in corso di validità) conformemente alla direttiva 2002/91/CE.
Non sono, invece, compresi nell'obbligo di presentazione dell'APE I contratti immobiliari relativi a:
fabbricati isolati con una superficie inferiore a 50 metri quadrati;
fabbricati industriali e artigianali, quando gli ambienti sono riscaldati per esigenze del processo produttivo (esempio: una serra);
fabbricati agricoli non residenziali sprovvisti di impianti di climatizzazione;
edifici adibiti a luoghi di culto;
edifici il cui utilizzo non prevede l'impiego di sistemi termici, quali: box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi e strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi (fatta eccezione per le porzioni adibite ad uffici);
edifici non destinati alla permanenza di persone, quali: garage, depositi, cantine, centrali termiche, locali contatori, legnaie, stalle;
fabbricati "al grezzo", nonché edifici venduti "al rustico", cioè privi delle rifiniture e degli impianti tecnologici;
edifici "marginali" (esempio: portici, pompeiane, legnaie);
edifici inagibili che, come tali, non comportino un consumo energetico (esempio: fabbricati in disuso).
Con riferimento all'imposta di registro, l'Agenzia precisa nella recente Risoluzione 83/E/2013 che i soggetti tenuti alla registrazione del contratto di locazione possono presentare in allegato l'APE, ma, trattandosi di un atto per il quale non vige l'obbligo di registrazione, l’Ufficio dell’Agenzia procederà alla registrazione del contratto, e dell’attestato allegato, con un’unica applicazione dell’imposta di registro. Se, invece, il soggetto presenta l'APE in data successiva alla registrazione del contratto di locazione, vi si applica l'imposta di registro nella misura fissa di € 168 (€ 200 dal 1° gennaio 2014). La risoluzione precisa ancora che chi registra un contratto di locazione in modalità telematica sul sito dell'Agenzia delle Entrate (ossia: canali "Locazioni web", "SIRIA" e "IRIS"), dato che con tali sistemi non è consentito allegare documenti, potrà presentare successivamente l'APE all'Ufficio in forma cartacea (insieme alla ricevuta di registrazione) e l'Ufficio lo registrerà senza applicazione dell'imposta di registro.
Con riguardo all'imposta di bollo, l'Agenzia delle Entrate comunica che se l'APE è allegato in originale o in copia semplice al contratto di locazione non deve essere assoggettato all’imposta di bollo. E' soggetto al bollo, invece, nella misura di 16 euro per ogni foglio se viene allegata copia autenticata dell'APE con dichiarazione di conformità all’originale rilasciata da un pubblico ufficiale.
La normativa pare di stretta attualità avuto riguardo ai continui problemi di inefficienza strutturale degli edifici (costruiti e in fase di costruzione) messi a nudo dagli eventi naturali. Ci pare, però, che la situazione immobiliare complessiva sia ancora in una fase del tutto disorganizzata ab origine e, probabilmente, sarebbe stato maggiormente opportuno provvedere prima a livello legislativo con opportune regole che imponessero un passaggio più graduale sulle svariate categorie di immobili, considerato che le situazioni nei vari comuni italiani risultano essere assai differenti fra di loro. Il rischio, infatti, potrebbe essere quello di avere un notevole blocco nella stipula di contratti afferenti situazioni ordinarie pregresse di immobili talmente datati, per i quali appare arduo dotarsi in tempi ragionevoli delle prescritte attestazioni (vista, altresì, la burocrazia locale). Elemento che sicuramente non aiuta potenziali sviluppi economici del settore.
Ciononostante, la ratio della norma è del tutto condivisibile e si spera che, quanto meno, possa servire a dare il via a un definitivo cambio di rotta nelle tecniche di costruzione, nonché a una maggiore oculata scelta dei materiali utilizzati, in modo da garantire quella serietà e professionalità che dovrebbe contraddistinguere sempre tutti i costruttori (e non solo una piccola parte degli stessi), proprio anche per assicurare prima di tutto alle medesime imprese condizioni di concorrenzialità paritarie.