martedì 15 aprile 2014

Obbligo del Casellario Giudiziario: i chiarimenti del Ministero del Lavoro nella Circolare N. 9/2014



Ecco, in sintesi, i chiarimenti appena forniti dal Ministero del Lavoro:
1.      L’adempimento riguarda soltanto i nuovi rapporti di lavoro costituiti a decorrere dal 06/04/2014.
2.      Non riguarda solo i lavoratori dipendenti, ma anche i parasubordinati, ossia: CO.CO.CO., Collaboratori a Progetto, Associati in Partecipazione etc.
3.      Sono esentati i rapporti di volontariato, ma non quelli in cui le organizzazioni di volontariato assumano la veste di datori di lavoro.
4.      Rimangono, altresì, esclusi (e questa è la novità più eclatante) anche i datori di lavoro domestici che assumano delle Baby-Sitter o simili; ciò in quanto – a parere del Ministero del Lavoro – il Legislatore ha inteso tutelare i minori quando sono al di fuori dell’ambito familiare, posto che tra le mura domestiche il genitore / datore di lavoro è in grado di assumere da solo tutte quelle necessarie cautele atte alla tutela del proprio figlio minorenne.
5.      L’obbligo riguarda solo il personale che ha un contatto non mediato e continuativo coi minori, pertanto restano esclusi da tale previsione: i dirigenti, i responsabili, i preposti e tutti coloro che sovrintendono all’attività svolta dall’operatore, e che possono avere contatti solo occasionali coi minori.
6.      L’obbligo riguarda solo le attività professionali che comportano un contatto necessario ed esclusivo coi minori; sono escluse quelle attività che sono rivolte a un’utenza indifferenziata e dove è solo possibile la presenza anche di minori.
7.      In attesa del rilascio del certificato del Casellario Giudiziario, che va comunque richiesto (previo assenso del diretto interessato), prima dell’impiego al lavoro, è possibile impiegare il lavoratore sulla base di una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da esibire eventualmente agli Organi della Vigilanza in ipotesi di verifica.  
Acclusa alla Circolare in questione, si trova la modulistica necessaria per richiedere il certificato.

mercoledì 9 aprile 2014

Sister



La news del giorno, pubblicata sulla rivista telematica dell’Agenzia delle Entrate, si chiama: Sister.
Che cos’è?
Semplice, è il nuovo servizio telematico dell’Agenzia che consentirà di consultare le banche dati di pubblicità immobiliare, le planimetrie e gli estratti di mappa, e di effettuare ricerche catastali e ispezioni ipotecarie, permettendo di presentare online, ai competenti uffici provinciali, i documenti obbligatori in caso di accatastamenti, ampliamenti, divisioni, ristrutturazioni etc., necessari per l’aggiornamento della situazione immobiliare. Il tutto per la modica somma di 200,00 euro di attivazione dell’abbonamento telematico, oltre a 30,00 euro per ogni password di accesso; e sempre che si sia già preventivamente in possesso di una firma digitale, la qual cosa – come noto – comporta ulteriori costi. L’Agenzia si affretta, peraltro, a precisare che i cittadini, se previamente abilitati ai servizi Entratel e Fisconline, possono richiedere gratuitamente il servizio, anche se solo per ciò che attiene le visure concernenti i propri immobili.
Ma, cari utenti ottuagenari, proprietari di alcuni ettari di campagna brulla in comune di Gonnoscodina, nell’antica Marmilla (reddito domenicale: euro 7,65 – reddito agrario: non pervenuto), voi, che non conoscete il significato etimologico del termine “computer” (figurarsi usarlo, iscriversi ai servizi telematici e chissà che altro), niente paura: sopportando le spese sopra indicate (nonché quelle per ricevere i primi rudimenti d’informatica), potrete verificare se quel rinnegato di vostro genero, dopo avervi inguaiato l’unica figlia femmina, si è pure improvvidamente indebitato, facendo iscrivere a garanzia un’ipoteca sul disgraziatissimo appezzamento di terreno, che continuate a maledire dal giorno in cui avete accettato l’eredita del vostro prozio, senza beneficio d’inventario.
Ovviamente, l’esempio è paradossale. Ma cosa c’è, invero, di più paradossale di un Fisco che approfitta di alcune vigenti inderogabili obbligatorie norme di legge, per incamerare a spese dei contribuenti i denari occorrenti al pagamento dei servizi forniti da terze entità pseudo-pubbliche, da lui stesso, prima appositamente incaricate?
Si dice che, in Italia, il nostro Belpaese (inteso come nick patriottico, non come quel vecchio formaggio, oramai fuori moda), non vi sia una cultura civica: condivido; però, forse, quelle teste d’uovo à la coque che governano dovrebbero domandarsene il perché. A questo punto, dopo anni e anni di turpitudini commesse pro domo eius atque contra populum, anche un venusiano se lo sarebbe già chiesto.
D’altronde, in epoca di “grandi fratelli”, una “sister” ci può pure stare: se no, poi, come la mettiamo con le “quote rosa”?

venerdì 4 aprile 2014

Cassazione Penale in tema di mancato pagamento IVA



Ultimamente si stanno susseguendo una serie di articoli concernenti la punibilità o meno degli amministratori delle società che non abbiano provveduto, nei termini previsti dalla normativa fiscale, al pagamento dell’IVA risultante dalla dichiarazione annuale.
Come noto, laddove l’imposta dovuta ecceda i 50.000,00 euro per anno, scatta il reato.
Recentemente, si è acceso il dibattito parlamentare al riguardo, posto che la delega fiscale aveva previsto la cancellazione di tale reato e che lo stesso ministro interessato aveva ribadito come la norma avrebbe dovuto essere senz’altro modificata, risultando particolarmente severa nell’attuale accezione.
Fatto sta che si ha sempre più spesso l’occasione di leggere talune interpretazioni personali, anche autorevoli, che, seppure non del tutto fuorvianti, quanto meno contribuiscono ad acuire il clima di confusione esistente e inducono spesso in false convinzioni i contribuenti, sulla base del generico presupposto per cui, se l’impresa si trova in crisi di liquidità (caso, oggi, particolarmente frequente), il reato non sussiste. Dobbiamo dire che, purtroppo, le cose non stanno esattamente così.
Innanzitutto, occorre premettere che la normativa, per il momento, non ha subito alcuna modifica; e, dunque, il reato resta tale e quale: se, dai dati esposti in dichiarazione, risulta che non sono stati versati più di 50.000,00 euro d’IVA, si verifica un’ipotesi di reato, indipendentemente dal fatto che, successivamente alla scadenza dei vari termini previsti dalle leggi tributarie per adempiere, l’amministratore abbia ottenuto delle rateazioni sulla conseguente cartella esattoriale e stia regolarmente ottemperando al pagamento delle relative rate.
Ciò premesso, occorre rilevare, senza peraltro voler entrare in tecnicismi di carattere giuridico-penale che non mi competono, come, in determinati casi, vi sia una palese carenza dell’elemento soggettivo, tale che, se adeguatamente provato da parte dell’amministratore il fatto che il mancato versamento fosse, nella concreta fattispecie, dipeso solo da fatti a lui non imputabili e avverso ai quali sussistesse una reale impossibilità di operare il pagamento, il mero dolo generico non possa apparire sufficiente per condannare il reo (così si espressa anche la recente pronuncia della Suprema Corte, N. 15176 del 3 aprile 2014, confermando la decisione del Tribunale di Milano).
Da qui, però, ad affermare che ogni qualvolta esista una crisi di liquidità aziendale, non sia punibile l’amministratore che omette di pagare l’IVA nei modi e nei termini anzidetti, ce ne passa… e molto.
Occorre che siano assolutamente documentati, da parte dell’imputato, alcuni elementi imprescindibili:
1)      La crisi di liquidità aziendale;
2)      Le operazioni di gestione effettuate dall’amministratore per cercare di far fronte ai pagamenti (esempio: richieste di prestiti e affidamenti non accordati);
3)      Il fatto che i ricavi aziendali siano stati utilizzati per pagare stipendi dei dipendenti e altre priorità gestionali, non per incamerare il proprio emolumento amministrativo o distribuire rendite ai soci (anzi, nel caso assai comune delle nostre SRL in cui l’amministratore è spesso anche socio, la circostanza che, al contrario, i soci abbiano utilizzato il proprio patrimonio per fare versamenti in conto capitale e aiutare la società a far fronte al periodo di crisi);
4)      Infine, come nell’esempio concernente la sentenza testé menzionata, la circostanza basilare che l’IVA da versare, non sia stata in realtà incassata entro le date necessarie per ottemperare al pagamento, perché i clienti non hanno provveduto a pagare: l’IVA, si sa, è una partita di giro e non appartiene alla società che la incassa; ma questa la deve conservare per poi versarla allo Stato. Quindi, laddove in effetti, l’IVA dichiarata faccia riferimento a delle fatture di vendita il cui incasso non è avvenuto, verrebbe a mancare quel dolo specifico che, a parere della Suprema Corte, non consente la condanna dell’amministratore.
Siccome, però, la materia contabile nei suoi intrecci tra obblighi civilistici e fiscali non è spesso così chiara, e diviene particolarmente ostico per l’amministratore fornire al riguardo adeguata prova, come pure per il giudice poter accertare tale circostanza, non possiamo che unirci con forza al coro di tutti coloro che auspicano un repentino intervento legislativo, peraltro – come detto – già previsto, onde mettere riparo a una situazione oltremodo iniqua e coercitiva, indegna di uno stato di diritto. 
 

Il nuovo contratto di lavoro a termine



Con riferimento alla disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, emanata nel recente DL 34/2014, occorre focalizzare l’attenzione su alcune questioni che potrebbero dare adito a differenti interpretazioni.
La nuova disposizione interviene, innanzitutto, sulle ragioni giustificatrici del contratto, abolendole, e introducendo, in via generale, a partire dal 21 marzo 2014, un contratto “acausale”. L’art. 1 afferma che il contratto a tempo determinato può essere stipulato per iscritto per un massimo di trentasei mesi, comprensivi di eventuali proroghe (fino a un massimo di otto), per qualsiasi tipo di mansione. Rimane in essere solo la necessità che la proroga si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato.
Nel rispetto del decreto in parola, poi, il numero complessivo dei rapporti non può superare il 20% dell’organico complessivo, mentre le imprese dimensionate fino a cinque unità possono sempre stipulare un contratto a tempo determinato.
Il primo problema che si pone riguarda i contratti a termine in essere, soprattutto, per quel che concerne il regime delle proroghe.
Si applica anche a essi o, invece, restano disciplinati, fino alla loro naturale scadenza, dalle vecchie norme?
Occorre considerare due elementi principali:
1.      La normativa in questione non è una nuova legge che va ad aggiungersi a quelle preesistenti, bensì una modifica al dettato normativo in vigore: “le parole… sono sostituite con le parole…”. Ciò significa che, nel momento in cui, 21 marzo 2014, entra in vigore detta modifica, la normativa che regola i contratti a termine sarà quella “nuova” che prevede la possibilità di rinnovo del precedente rapporto senza specificazione di una causale, fino a 36 mesi, per un massimo di 8 volte e con il solo limite sopra accennato della percentuale massima dei rapporti a tempo determinato rispetto al totale della manodopera in forza.
2.      Altro elemento da tenere in debito conto è quello concernente l’incostituzionale disparità di trattamento che si verrebbe a creare laddove i vecchi contratti a tempo determinato in essere, in fase di rinnovo, venissero circoscritti ai limiti della normativa previgente, rispetto alla liberalizzazione di cui viceversa godrebbero coloro che attivassero dei contratti di lavoro a termine a partire dal 21 marzo.
Si deve, dunque, senz’altro concludere che tutti i rinnovi (analogamente ai nuovi contratti) che decorrano dal 21 marzo 2014 sono automaticamente soggetti alla nuova disciplina in vigore appunto da tale data.
Il secondo fondamentale problema attiene al limite ora imposto (e prima inesistente) del 20%. Vediamo di esplicitare, meglio, nel dettaglio la norma in argomento.
1.      A cosa corrisponde in pratica questo 20%? Il 20% significa un lavoratore a tempo determinato su cinque complessivi. Viene specificato, però, che, in ogni caso, fino a cinque dipendenti, è sempre possibile procedere all’instaurazione di almeno un contratto a termine senza alcun altro limite minimo. Ergo, in base alla legge (che, a mio modesto parere, risulta essere in questo deficitaria), l’impresa che ha in forza un dipendente può avere un rapporto a tempo determinato così come parimenti averne sempre solo uno anche l’impresa che ha in forza fino a nove dipendenti. Sinceramente, pare doveroso intervenire con dei correttivi sul punto, posto che esiste un’enorme differenza sostanziale tra le due tipologie imprenditoriali anzidette.
2.      Qual è il momento in cui conteggiare il 20%? La norma non precisa nulla con riguardo a eventuali medie pregresse di occupati (come, invece, risulta in altre disposizioni speciali – vedere a esempio per la CIGS). Pertanto, il calcolo del 20% deve essere verificato con riferimento alla data effettiva in cui si procede all’instaurazione del rapporto.
3.      Su che base deve calcolarsi il 20%? Qui, il tenore letterario della disposizione non fa riferimento alle singole unità lavorative ma parla genericamente di organico complessivo. Pare, dunque, che il calcolo debba farsi tenendo conto del fatto che i lavoratori a tempo parziale andranno computati pro-quota, mentre quelli intermittenti in proporzione all’orario di lavoro effettivamente prestato nell’arco di ciascun semestre. Sulla base delle precedenti circolari INPS dettate in materie analoghe, non dovrebbero viceversa potersi conteggiare: gli apprendisti, gli assunti con contratti d’inserimento e i lavoratori assunti dopo essere stati addetti in lavori socialmente utili o di pubblica utilità; mentre restano forti dubbi sul computo dei contratti di somministrazione.
4.      Quali sono le esclusioni previste? Il legislatore ha fatto salvo quanto disposto dall'art. 10, comma 7, del D.Lgs. 368/2001, e ciò dovrebbe comportare che:
a)                            i limiti percentuali stabiliti dai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi prevalgono sul limite legale del 20%, sia se inferiori, sia se superiori a esso; anche se un’interpretazione meno letterale e più sistematica dovrebbe portare a ritenere che il limite legale del 20% si debba considerare come tetto di garanzia minima per lo sviluppo occupazionale, con riferimento al quale, dunque, la contrattazione potrebbe solo migliorare, e non anche peggiorare;
b)                            continuano a valere le esclusioni elencate nelle lett. a), b), c) e d) dello stesso comma 7; ossia, resterebbero esclusi dall’applicazione del 20%:
-          i contratti a tempo determinato conclusi nella fase di avvio delle nuove attività;
-          i lavoratori assunti per ragioni di carattere sostitutivo, nonché i lavoratori stagionali (sarà opportuno in tali casi che nel contratto risulta esattamente specificata la causale del tipo di assunzione);
-          i lavoratori assunti per far fronte alla particolare intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno;
-          i contratti a tempo determinato stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage, allo scopo di facilitare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ovvero stipulati con lavoratori di età superiore ai cinquantacinque anni, o conclusi quando l'assunzione abbia luogo per l'esecuzione di un'opera o di un servizio definiti, o predeterminati nel tempo e aventi carattere   straordinario o occasionale.
In conclusione, pare superfluo evidenziare come la normativa in questione presenti non pochi elementi che prestano il fianco a divergenze interpretative e, dunque, sia particolarmente auspicabile, o un intervento modificativo da parte del Legislatore in fase di conversione in legge del decreto, o quanto meno un intervento chiarificatore della lettura della disposizione legislativa da parte del competente organo ministeriale.