venerdì 30 maggio 2014
giovedì 29 maggio 2014
mercoledì 28 maggio 2014
sabato 24 maggio 2014
venerdì 23 maggio 2014
Quanto costa dedurre le perdite su crediti dal reddito
Si avvicina la scadenza per il
deposito dei bilanci e gli studi professionali sono alle prese – tra l’altro – con
l’usuale lavoro di raccordo fra norme civilistiche e fiscali. Con riferimento
alle varie poste meritevoli di particolare attenzione in relazione ai
potenziali risvolti di carattere fiscale, vi sono senza dubbio le perdite concernenti
i crediti non riscossi che l’impresa, specie in questi anni di grave crisi
economica, è costretta a sopportare.
L’art. 101, c. 5, del D.P.R. n.
917/1986 stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito
d’impresa se risultano da elementi certi e precisi, oppure se il debitore è
assoggettato a una procedura concorsuale o ha concluso un accordo di
ristrutturazione dei debiti omologato (art. 182-bis del R.D. 267/1942).
Come all’uopo precisato nella
Circolare Ministeriale 39/E del 2002, la deduzione dal reddito d’impresa deve
intendersi ammissibile quando la perdita su crediti diviene definitiva,
escludendo ogni elemento valutativo e presuntivo. In particolare, è stato anche
di recente ribadito (Circolare 26/E del 2013), che la definitività della
perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro
il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria
pretesa creditoria. Il generico riferimento dell’art. 101, c. 5, del TUIR alla
ricorrenza degli elementi certi e precisi implica, pertanto, la necessità di
ricorrere a una valutazione specifica, in base al caso concreto, dell’idoneità
di tali elementi a dimostrare la definitività della perdita, tenendo altresì
conto del peculiare contesto in cui la stessa è maturata. A tal riguardo,
l’Amministrazione ha osservato che la perdita su crediti può ritenersi definitiva
soltanto a fronte di uno stato oggettivo d’insolvenza non temporanea del
debitore, riscontrabile qualora la situazione di illiquidità finanziaria e di incapienza
patrimoniale sia tale da fare escludere la possibilità di un futuro
soddisfacimento della posizione creditoria. Detta situazione può certamente
considerarsi verificata, a parere dell’Agenzia delle Entrate, in presenza di un
decreto accertante lo stato di fuga, la latitanza o irreperibilità del
debitore, ovvero in caso di denuncia di furto d’identità da parte di
quest’ultimo (art. 494 c.p.), o nell’ipotesi di persistente assenza dello
stesso (art. 49 c.c.). A questo proposito, possono reputarsi quali sufficienti
elementi di prova tutti quei documenti attestanti l’esito negativo delle azioni
esecutive avviate dal creditore, come il verbale di pignoramento negativo, purché
l’infruttuosità delle stesse risulti pure sulla base di una valutazione
complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e
definitiva.
Sul punto, a esempio, la sopra
menzionata Circolare del 2013 ha ricordato che anche l’infruttuosa attivazione
delle procedure esecutive nei confronti di un ente pubblico, peraltro non
assoggettabile a procedure concorsuali, non è da sola sufficiente a dimostrare
l’impossibilità futura di recuperare il credito.
Un altro utile elemento di prova, a
corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, può essere rappresentato
dalla documentazione idonea a dimostrare che è sconsigliata l’instaurazione di procedure
esecutive: in proposito, possono essere tenute in considerazione le lettere dei
legali incaricati della riscossione del credito (Cass. 3862/2001), o le
relazioni rilasciate dalle agenzie di recupero di cui all’art. 115 del TULPS,
nell’ipotesi di mancato successo dell’attività di riscossione.
Fin qui la normativa vigente e le
conseguenti interpretazioni ministeriali e giurisprudenziali. Peraltro,
sembrerebbe quanto mai illogico estraniarsi dalla realtà in cui si vive nell’applicazione
pratica delle leggi. Su tale fondamento, non vi è chi non veda come, nella
fattispecie in esame, la legge paia oltremodo anacronistica.
Dopo aver subito nocumento a
seguito dell’IVA versata anche se mai incassata, l’imprenditore si trova
obbligato a spendere dei soldi per poter “ripulire” il bilancio civilistico da
voci attive che, di fatto, risultano essere fittizie, in quanto relative a
crediti di cui è certa l’impossibilità sostanziale d’incasso, ma è vietato il
riporto a perdita, salvo – come detto – non si spendano dei soldi per
dimostrare ufficialmente tale circostanza. Cosa che, tra l’altro, comporta una
scarsa veridicità circa la reale complessiva situazione dell’azienda.
Innanzitutto, le probabilità che
un’impresa sia assoggettata alle procedure concorsuali, oggi come oggi, sono
sempre minori: vuoi per i parametri fissati dalla legge, vuoi proprio perché i
creditori dovrebbero spendere dei soldi ed è evidente che non lo faranno se non
ritengono che almeno una parte del loro credito possa essere incamerato.
In secondo luogo, l’Agenzia delle
Entrate precisa che, se si vuole dedurre la perdita maturata su un credito, in
pratica, o viene dichiarato il fallimento del debitore, oppure: “la
definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere
l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto
parzialmente, la propria pretesa creditoria”. Ma, nel caso di un fallimento, in
genere, accade proprio questo: insinuazione al passivo per il 100% del proprio
credito e presumibile realizzo al termine della procedura di una piccola parte
dello stesso.
Si obietterà che, proprio la
recente Legge di Stabilità ha introdotto un correttivo alla normativa,
prevedendo che, in caso di cancellazione di un credito dallo stato
patrimoniale, si potrà dedurre la relativa perdita senza dover dimostrare la
sussistenza dei requisiti della «certezza e precisione», a condizione che lo
storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi
contabili e senza intenti elusivi. In pratica, si tratta, però, solo della
stessa normativa varata nel 2012 e illustrata con la sopra menzionata Circolare
26/E del 2013, che diventa – fin dal bilancio la cui presentazione è ora in
scadenza – applicabile adesso a tutte le imprese, anche a quelle c.d. non IAS
Adopter.
Il punto è che tale norma non è
affatto chiara. Cosa significa: “A condizione che lo storno del credito sia
stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza
intenti elusivi”? Parrebbe evidente sempre che i crediti debbano essere
stornati rispettando tali precetti. E la citata Circolare – come appena visto –
certo non aiuta, continuando di fatto a porre l’accento sulla necessità di
documentare le solite casistiche (stato d’insolvenza definitiva, reati,
tentativi legali infruttuosi etc.).
A parere di chi scrive, insomma, la
normativa in questione appare oramai divenuta assolutamente anacronistica
(anche e soprattutto a causa dell’attuale periodo di crisi economica), e
necessiterebbe quanto meno di un immediato “restyling”. Con l’ultima Legge di
Stabilità si è, semmai, a conti fatti, persa l’importante occasione di agire
nella corretta sede istituzionale.
martedì 20 maggio 2014
Modello Unico Precompilato
"Sono convinto che se ci
impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms".
“L'Italia è un Paese che incasina
le cose semplici, ma le tasse bisogna pagarle con maggiore semplicità".
Chi non è d’accordo con simili
affermazioni?
Il dubbio insorge allorché a
pronunciarle è qualcuno che continua a chiamare il “Modello Unico”: “740”. Mi
ricorda tanto il mio povero nonno che, all’epoca in cui combattevo con i primi
insegnamenti scolastici, quando il telefono si guastava, continuava a ripetere:
“Bisogna chiamare la TETI”; e, non comprendendo, gli domandavo: “Nonno, cos’è
la TETI? Semmai, la SIP” (allora, non esisteva ancora la Telecom… bei tempi – n.d.a.).
L’ultima trovata populista (o
propagandista, fate voi) è il “Modello Unico Precompilato”.
Si penserà che la mia è una difesa
dell’orticello: padronissimi di crederlo, ma non è così. La mia è forte
preoccupazione… financo, palpitazione.
Permettetemi se, alla luce delle
diuturne dimostrazioni (non ultima la TASI), nutra seri dubbi sul fatto che il
Governo e i suoi amici “tecnici” abbiano la capacità di predisporre il citato
modulo dichiarativo, riuscendo a non combinare i soliti impicci che, indovinate
chi poi avrà il compito di risolvere? (ovviamente, gratis).
Innanzitutto, la tipologia di
contribuenti potenzialmente interessata da tale innovazione (nel mio, come
nella stragrande maggioranza degli studi dei colleghi che conosco), non
comporta una rilevante diminuzione del volume d’affari: vuoi perché si tratta
di adempimenti veramente minimi che non possono avere alcun “peso” in ordine di
fatturato; vuoi perché in genere sono dichiarazioni eseguite di fatto
gratuitamente (parenti dell’imprenditore che già paga la parcella per la
propria azienda e nei confronti del quale, assai raramente, è possibile richiedere
un extra per qualcosa che viene ritenuta una “cortesia obbligata”). Insomma, alla
fine dei conti, si hanno solo numerosi inconvenienti nel chiamare il cliente e racimolare
per tempo la documentazione necessaria senza ottenerne alcun effettivo ritorno
in termini di corrispettivo, e con l'aggravante di essere accusati di
aver fatto del "nero" in occasione di controlli.
Senonché, inutile negarlo, esistono
pur sempre parecchi studi in cui, anche i semplificati adempimenti dichiarativi
in questione, costituiscono un’importante fetta di lavoro e che – ahinoi – meriterebbero
un Consiglio Nazionale in grado di difenderne gli interessi (certo, prima
dovrebbe esistere un Consiglio Nazionale, stante il perdurante vuoto
governativo che continua ad attanagliare la categoria; ma questa è un’altra
storia).
Tornando però al nocciolo del
problema, occorre focalizzare l’attenzione sul seguente aspetto:
posto che tanti studi svolgono tale
tipologia di lavoro e che, evidentemente, vi sono dei dipendenti all’uopo
preposti, che fine farà questo personale? Andrà ad accrescere l’esercito
italiano dei disoccupati?
I miei complimenti, davvero una
brillante iniziativa: per far risparmiare 50 euro a una ridotta fetta di
elettori, si tagliano gli stipendi di tanti lavoratori.
Meditate, gente, meditate…
lunedì 19 maggio 2014
La TASI 2014
Dopo un anno di confusione tra TARSU, TARES, TRISE, TUC, TARI, IMU, IUC
etc., il prossimo 16 giugno 2014, scadrà il termine per il pagamento della
prima rata (acconto) della nuova TASI.
La TASI (Tassa per i Servizi Indivisibili), insieme all’IMU (Imposta
Municipale Propria) e alla TARI (Tassa per i Rifiuti), è una componente
dell’Imposta Unica Comunale (IUC), ed è destinata alla copertura delle spese
per l’anagrafe, l’arredo urbano, l’illuminazione pubblica e la manutenzione
strade. Sostituisce, in parte, l’IMU (ancora in vigore per le seconde case, gli
immobili di pregio – A1, A8, A9 – i negozi e gli altri fabbricati); il che
significa che, seppure la base su cui si effettua il calcolo è la stessa, si
tratta in realtà di due distinti tributi che debbono essere entrambi pagati
(ovviamente, se possessori di immobili).
La
legge di stabilità aveva fissato il tetto massimo al 2,5 X 1.000 per la prima
casa, e al 10,6 X 1.000 per la seconda (TASI + IMU); il governo ha poi concesso
ai Comuni la possibilità di aumentare le aliquote fino a un massimo dello 0,8%,
distribuendo l'aumento tra prima e seconda casa. La maggiorazione deve essere,
però, vincolata alla concessione delle detrazioni, scomparse a livello
nazionale con riferimento all’IMU.
I
problemi principali nascono dal fatto che i Comuni non hanno ancora deliberato
al riguardo ed è facile presumere che la maggior parte degli stessi non farà in
tempo a concludere, entro maggio, l’iter relativo, fino alla sua pubblicazione
nel sito:
“portalefederalismofiscale.gov.it”
Lo
spiraglio di una proroga a settembre, di cui si era recentemente vociferato a
livello ministeriale, nei giorni scorsi è stato escluso. Poi, ieri, nuovo
cambio di rotta: in settimana, si deciderà se prorogare o meno. In ogni caso,
in assenza di proroga e di delibera da parte dei Comuni:
-
per
le “prime case”, si verserà tutta l’imposta dell’anno, in unica soluzione,
direttamente a dicembre;
-
per
le “seconde case”, il 50% della TASI andrà pagata entro il 16 giugno
(aggiungendo, come detto, anche l’IMU, rimasta invariata), e il restante 50% a
dicembre.
Per quanto concerne le aliquote:
-
per le “prime case”, si potrà
arrivare fino al 3,3 X 1.000;
-
per le “seconde case” (e gli
altri immobili: uffici, negozi, capannoni etc.), si potrà arrivare –
complessivamente: TASI e IMU – fino all’11,4 X 1.000;
-
per gli immobili accatastati A1,
A8 e A9, si pagherà (come prima) l’IMU con aliquota massima del 6 X 1.000 e detrazione di 200 euro (senza,
però, i 50 euro extra per ogni figlio), oltre alla TASI con l’anzidetta aliquota
massima del 3,3 X 1.000, tenuto conto del limite (tra TASI e IMU) del 6,8 X
1.000;
-
per
gli immobili in affitto, si pagheranno TASI e IMU con il limite dell'11,4 X
1.000, di cui:
A)
la
TASI, in parte anche a carico anche degli inquilini per una percentuale
variabile tra il 10% e il 30% (a seconda della delibera comunale);
B)
l’IMU,
interamente a carico dei proprietari.
Come precisato all’inizio, la base imponibile della TASI è la
stessa di quella dell’IMU:
Imponibile
= rendita catastale rivalutata del 5% X coefficiente di competenza (per le
abitazioni: 160)
Su
detto imponibile si applica, poi, l'aliquota comunale, con le eventuali
detrazioni.
Si
paga col solito modello F24 o bollettino di conto corrente, in banca o alle
poste.
Rebus
sic stantibus, si ritiene di poter escludere che, perlomeno in questo primo
anno di applicazione della nuova TASI, i Comuni facciano a tempo a inviare per
posta ai contribuenti gli usuali bollettini di pagamento prestampati: sarà già
assai difficile che riescano a deliberare le rispettive aliquote entro la
menzionata scadenza di maggio.
In
tale ultima ipotesi (mancata delibera dell’aliquota maggiorata), i proprietari
dovranno pagare la TASI nella misura dello 0,5 X 1.000 (ovverossia, il 50% dell’aliquota
base pari all’1 X 1.000), detraendovi, in caso di immobili in affitto, la
percentuale forfetaria a carico degli inquilini, pari al:
-
5%
(vale a dire, il 50% del 10% dovuto per l’intero anno), secondo quelle che
sembrerebbero essere le indicazioni fornite dal MEF;
-
15%
(50% del 30% annuo), secondo quello che afferma la Confedilizia.
Tutto
ciò, fermo restando che, successivamente, a seconda di quelle che si
riveleranno essere le effettive delibere dei vari Comuni, occorrerà procedere
con i conguagli.
La
speranza (ultima a morire) è che, dopo aver causato l’ennesimo caos a danno di
contribuenti e addetti ai lavori, per i soliti interessi politici (o, peggio
ancora, per mera incapacità), lo Stato non abbia anche l’ardire di addebitare
una qualunque tipologia di sanzioni a carico di coloro i quali non saranno in
grado di provvedere agli eventuali versamenti di conguaglio, entro le scadenze
prefissate, che risultano essere sempre imprescindibili e obbligatorie per i
cittadini, mai per le istituzioni.
domenica 11 maggio 2014
Chi paga per la Spending Review?
Con la Legge di Stabilità per il 2013 (la N. 228 del 24/12/2012), si è dato inizio a una serie di misure tendenti a diminuire i costi della Pubblica Amministrazione in ottica Spending Review. Tra queste misure, fin dallo scorso 2013, è stata prevista la nota soppressione, da parte dell’INPS, dell’invio di svariati usuali documenti cartacei, primi fra tutti: i CUD per i pensionati e i modelli F24 prestampati di pagamento per gli iscritti alle Gestioni IVS dei Commercianti e degli Artigiani.
Come sempre accade di fronte a una novità, il primo anno è stato alquanto traumatico, posto che l’inadeguata politica d’informazione ha comportato numerosissimi ritardi e omissioni negli adempimenti dei pagamenti dei citati contributi IVS, nonché il panico in capo agli anziani pensionati, costretti a specializzarsi nell’uso di un computer per dotarsi di codice PIN personale, ovvero ad affrontare le interminabili code al telefono, o presso gli sportelli dell’INPS.
Chi, peraltro, s’illudeva che l’anno successivo (ossia, quello in corso) potesse andar meglio, si sbagliava di grosso.
A un anno dall’entrata in vigore del decreto che dava attuazione all’anzidetta normativa contenuta nella Legge di Stabilità per il 2013, la maggior parte degli interessati – ancora inconsapevoli – si sono dovuti precipitare in massa a richiedere il famigerato PIN e, fatto per nulla anomalo in Italia, il sistema è andato in tilt. Evidentemente, a furia di tagliare, si è tagliato anche sulla tecnologia; o può darsi che, nel decidere di dar corso a tale tipologia di Spending Review, si sia prima tralasciato di valutare e testare l’efficienza tecnologica del sistema, e se lo stesso fosse stato in grado di far fronte all’inevitabile sovraccarico di richieste telematiche.
Per intenderci: se acquisto un router da quattro accessi perché ho quattro computer che devono connettersi a Internet, non posso preoccuparmi di acquistare altri quattro computer se prima non mi premunisco di comprare un router più potente che possa sopportare il doppio delle connessioni.
Fatto sta che, fino a qualche mese fa, l’INPS inviava ai richiedenti la seconda parte del PIN nel giro di una settimana; in questo periodo (particolarmente ricco di scadenze), i tempi si sono più che raddoppiati. Oltre a ciò, il sito è quotidianamente “impallato” e risulta impossibile, per i titolari delle Gestioni IVS Commercianti e Artigiani, scaricare i modelli F24 di pagamento, la cui prossima scadenza – è bene ricordarlo – è fissata per venerdì, 16 maggio.
Dati tali presupposti, sarà dunque inevitabile che moltissimi contribuenti i quali non si siano già mossi con congruo anticipo (cosa più unica che rara, in Italia) non faranno materialmente in tempo a provvedere ai prescritti versamenti e saranno costretti a corrispondere le sanzioni (seppur ridotte se effettueranno il ravvedimento breve) e gli interessi, conseguenti al ritardato adempimento. Unica alternativa sarebbe quella di prendersi un giorno extra di ferie e bivaccare presso le sedi INPS, dove attualmente le file sono ancora più lunghe rispetto a quelle dell’anno scorso.
Anche questo, se vogliamo, è un sistema per aumentare le entrate statali, laddove i provvedimenti adottati per diminuire le uscite non risultino essere sufficienti. Insomma, agli effetti pratici, la tanto decantata Spending Review, quanto meno nella fattispecie in questione, diventa l’ennesima scelta politica negativa che viene pagata dai cittadini, i quali hanno maggiori esborsi oltre che minori servizi, anziché – come dovrebbe essere – un’azione meramente diretta a limitare i costi pubblici.
Francamente, la situazione appare grottesca: non si capisce perché lo Stato, come sempre assai propenso a chiedere e quasi mai a concedere, non intervenga immediatamente (a livello parlamentare o ministeriale) con norme di rinvio, facili, immediate e di costo pressoché nullo, perlomeno fino a che la situazione tecnologica dell’INPS non sia stata definitivamente riportata alla normalità, e ponga riparo a questa ingiusta e indegna situazione.
E poi si ha pure l’ardire di scandalizzarsi quando si parla di Repubblica delle banane…
Come sempre accade di fronte a una novità, il primo anno è stato alquanto traumatico, posto che l’inadeguata politica d’informazione ha comportato numerosissimi ritardi e omissioni negli adempimenti dei pagamenti dei citati contributi IVS, nonché il panico in capo agli anziani pensionati, costretti a specializzarsi nell’uso di un computer per dotarsi di codice PIN personale, ovvero ad affrontare le interminabili code al telefono, o presso gli sportelli dell’INPS.
Chi, peraltro, s’illudeva che l’anno successivo (ossia, quello in corso) potesse andar meglio, si sbagliava di grosso.
A un anno dall’entrata in vigore del decreto che dava attuazione all’anzidetta normativa contenuta nella Legge di Stabilità per il 2013, la maggior parte degli interessati – ancora inconsapevoli – si sono dovuti precipitare in massa a richiedere il famigerato PIN e, fatto per nulla anomalo in Italia, il sistema è andato in tilt. Evidentemente, a furia di tagliare, si è tagliato anche sulla tecnologia; o può darsi che, nel decidere di dar corso a tale tipologia di Spending Review, si sia prima tralasciato di valutare e testare l’efficienza tecnologica del sistema, e se lo stesso fosse stato in grado di far fronte all’inevitabile sovraccarico di richieste telematiche.
Per intenderci: se acquisto un router da quattro accessi perché ho quattro computer che devono connettersi a Internet, non posso preoccuparmi di acquistare altri quattro computer se prima non mi premunisco di comprare un router più potente che possa sopportare il doppio delle connessioni.
Fatto sta che, fino a qualche mese fa, l’INPS inviava ai richiedenti la seconda parte del PIN nel giro di una settimana; in questo periodo (particolarmente ricco di scadenze), i tempi si sono più che raddoppiati. Oltre a ciò, il sito è quotidianamente “impallato” e risulta impossibile, per i titolari delle Gestioni IVS Commercianti e Artigiani, scaricare i modelli F24 di pagamento, la cui prossima scadenza – è bene ricordarlo – è fissata per venerdì, 16 maggio.
Dati tali presupposti, sarà dunque inevitabile che moltissimi contribuenti i quali non si siano già mossi con congruo anticipo (cosa più unica che rara, in Italia) non faranno materialmente in tempo a provvedere ai prescritti versamenti e saranno costretti a corrispondere le sanzioni (seppur ridotte se effettueranno il ravvedimento breve) e gli interessi, conseguenti al ritardato adempimento. Unica alternativa sarebbe quella di prendersi un giorno extra di ferie e bivaccare presso le sedi INPS, dove attualmente le file sono ancora più lunghe rispetto a quelle dell’anno scorso.
Anche questo, se vogliamo, è un sistema per aumentare le entrate statali, laddove i provvedimenti adottati per diminuire le uscite non risultino essere sufficienti. Insomma, agli effetti pratici, la tanto decantata Spending Review, quanto meno nella fattispecie in questione, diventa l’ennesima scelta politica negativa che viene pagata dai cittadini, i quali hanno maggiori esborsi oltre che minori servizi, anziché – come dovrebbe essere – un’azione meramente diretta a limitare i costi pubblici.
Francamente, la situazione appare grottesca: non si capisce perché lo Stato, come sempre assai propenso a chiedere e quasi mai a concedere, non intervenga immediatamente (a livello parlamentare o ministeriale) con norme di rinvio, facili, immediate e di costo pressoché nullo, perlomeno fino a che la situazione tecnologica dell’INPS non sia stata definitivamente riportata alla normalità, e ponga riparo a questa ingiusta e indegna situazione.
E poi si ha pure l’ardire di scandalizzarsi quando si parla di Repubblica delle banane…
venerdì 9 maggio 2014
La condotta anti-economica non è sempre indizio di elusione fiscale: Ordinanza Cassazione
Torniamo a parlare di un tema
delicato, prendendo spunto dall’Ordinanza 8 maggio 2014, n. 10041, della Corte
di Cassazione, la quale ha sancito che non basta un comportamento
anti-economico, come nel caso di vendita a prezzi troppo bassi, da parte
dell'impresa, per integrare la fattispecie di elusione fiscale tale da negare
la detrazione IVA. La Corte, infatti, ha
affermato che, una condotta anti-economica non giustificata dal contribuente
consente all'Amministrazione finanziaria, da un lato di procedere a un
accertamento legittimo, ma dall'altro non permette di rettificare l'IVA, a meno
che tale condotta non rientri nei casi di operazioni inesistenti,
sovrafatturazioni o altri comportamenti inseriti all'interno di fattispecie
inerenti l'abuso di diritto. Tale orientamento deriva dal fatto che la regola
sull'anti-economicità appartiene all'imposizione diretta e, per poter essere
applicata anche all'IVA (imposizione indiretta), è necessaria l'osservanza di
tutti i principi enunciati in materia dalla Corte di Giustizia, secondo i quali
non è prevista alcuna limitazione al diritto di detrazione.
Il pronunciamento in questione,
tecnicamente inappuntabile, appare vieppiù attuale, posto il prolungato periodo
di grave crisi economica.
Le imprese si trovano
quotidianamente a dover affrontare grossi problemi di perdita di fatturato: il
mercato langue ed è già fortunato chi riesce a vendere a prezzi scontatissimi;
anche solo immaginare di proporre dei prodotti alla clientela, mantenendo i
margini di ricavo esistenti fino a qualche anno fa, appare francamente del
tutto anacronistico.
E tale fatto è sotto gli occhi di
tutti.
Come se, poi, tale situazione non
fosse già di per sé stessa sufficientemente penalizzante, al danno si aggiunge
pure la beffa di un accertamento fiscale che imputa agli imprenditori un
comportamento elusivo in base a mere presunzioni, per aver praticato degli
sconti “straordinari” (ormai divenuti, del resto, prassi ordinaria), pur di
riuscire a vendere i propri prodotti e movimentare l’economia.
È evidente che non tutte le
situazioni sono uguali: esistono svariate aziende floride che, di certo, non
hanno bisogno di ricorrere a una diminuzione dei listini per produrre il loro
fatturato. Ebbene, in tali casi, non può negarsi un intento elusivo laddove
venga adottata una politica gestionale di vendite sotto-costo. Ma
l’accertamento deve sempre essere fondato su fatti e prove concrete; non su
mere presunzioni esclusivamente supportate da una normativa evidentemente
lacunosa.
È, infatti, acclarato come,
perlomeno nella stragrande maggioranza dei settori economici, i prezzi al
consumo si siano assestati su livelli di gran lunga inferiori rispetto ai tempi
pre-crisi. E non vi può essere chi non riconosca tale generale situazione quale
elemento fondamentale su cui riporre la massima attenzione in occasione di
qualunque tipologia di verifica tributaria.
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