venerdì 23 maggio 2014

Quanto costa dedurre le perdite su crediti dal reddito



Si avvicina la scadenza per il deposito dei bilanci e gli studi professionali sono alle prese – tra l’altro – con l’usuale lavoro di raccordo fra norme civilistiche e fiscali. Con riferimento alle varie poste meritevoli di particolare attenzione in relazione ai potenziali risvolti di carattere fiscale, vi sono senza dubbio le perdite concernenti i crediti non riscossi che l’impresa, specie in questi anni di grave crisi economica, è costretta a sopportare.
L’art. 101, c. 5, del D.P.R. n. 917/1986 stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito d’impresa se risultano da elementi certi e precisi, oppure se il debitore è assoggettato a una procedura concorsuale o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (art. 182-bis del R.D. 267/1942).
Come all’uopo precisato nella Circolare Ministeriale 39/E del 2002, la deduzione dal reddito d’impresa deve intendersi ammissibile quando la perdita su crediti diviene definitiva, escludendo ogni elemento valutativo e presuntivo. In particolare, è stato anche di recente ribadito (Circolare 26/E del 2013), che la definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria pretesa creditoria. Il generico riferimento dell’art. 101, c. 5, del TUIR alla ricorrenza degli elementi certi e precisi implica, pertanto, la necessità di ricorrere a una valutazione specifica, in base al caso concreto, dell’idoneità di tali elementi a dimostrare la definitività della perdita, tenendo altresì conto del peculiare contesto in cui la stessa è maturata. A tal riguardo, l’Amministrazione ha osservato che la perdita su crediti può ritenersi definitiva soltanto a fronte di uno stato oggettivo d’insolvenza non temporanea del debitore, riscontrabile qualora la situazione di illiquidità finanziaria e di incapienza patrimoniale sia tale da fare escludere la possibilità di un futuro soddisfacimento della posizione creditoria. Detta situazione può certamente considerarsi verificata, a parere dell’Agenzia delle Entrate, in presenza di un decreto accertante lo stato di fuga, la latitanza o irreperibilità del debitore, ovvero in caso di denuncia di furto d’identità da parte di quest’ultimo (art. 494 c.p.), o nell’ipotesi di persistente assenza dello stesso (art. 49 c.c.). A questo proposito, possono reputarsi quali sufficienti elementi di prova tutti quei documenti attestanti l’esito negativo delle azioni esecutive avviate dal creditore, come il verbale di pignoramento negativo, purché l’infruttuosità delle stesse risulti pure sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e definitiva.
Sul punto, a esempio, la sopra menzionata Circolare del 2013 ha ricordato che anche l’infruttuosa attivazione delle procedure esecutive nei confronti di un ente pubblico, peraltro non assoggettabile a procedure concorsuali, non è da sola sufficiente a dimostrare l’impossibilità futura di recuperare il credito.
Un altro utile elemento di prova, a corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, può essere rappresentato dalla documentazione idonea a dimostrare che è sconsigliata l’instaurazione di procedure esecutive: in proposito, possono essere tenute in considerazione le lettere dei legali incaricati della riscossione del credito (Cass. 3862/2001), o le relazioni rilasciate dalle agenzie di recupero di cui all’art. 115 del TULPS, nell’ipotesi di mancato successo dell’attività di riscossione.
Fin qui la normativa vigente e le conseguenti interpretazioni ministeriali e giurisprudenziali. Peraltro, sembrerebbe quanto mai illogico estraniarsi dalla realtà in cui si vive nell’applicazione pratica delle leggi. Su tale fondamento, non vi è chi non veda come, nella fattispecie in esame, la legge paia oltremodo anacronistica.
Dopo aver subito nocumento a seguito dell’IVA versata anche se mai incassata, l’imprenditore si trova obbligato a spendere dei soldi per poter “ripulire” il bilancio civilistico da voci attive che, di fatto, risultano essere fittizie, in quanto relative a crediti di cui è certa l’impossibilità sostanziale d’incasso, ma è vietato il riporto a perdita, salvo – come detto – non si spendano dei soldi per dimostrare ufficialmente tale circostanza. Cosa che, tra l’altro, comporta una scarsa veridicità circa la reale complessiva situazione dell’azienda.
Innanzitutto, le probabilità che un’impresa sia assoggettata alle procedure concorsuali, oggi come oggi, sono sempre minori: vuoi per i parametri fissati dalla legge, vuoi proprio perché i creditori dovrebbero spendere dei soldi ed è evidente che non lo faranno se non ritengono che almeno una parte del loro credito possa essere incamerato.
In secondo luogo, l’Agenzia delle Entrate precisa che, se si vuole dedurre la perdita maturata su un credito, in pratica, o viene dichiarato il fallimento del debitore, oppure: “la definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria pretesa creditoria”. Ma, nel caso di un fallimento, in genere, accade proprio questo: insinuazione al passivo per il 100% del proprio credito e presumibile realizzo al termine della procedura di una piccola parte dello stesso.
Si obietterà che, proprio la recente Legge di Stabilità ha introdotto un correttivo alla normativa, prevedendo che, in caso di cancellazione di un credito dallo stato patrimoniale, si potrà dedurre la relativa perdita senza dover dimostrare la sussistenza dei requisiti della «certezza e precisione», a condizione che lo storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza intenti elusivi. In pratica, si tratta, però, solo della stessa normativa varata nel 2012 e illustrata con la sopra menzionata Circolare 26/E del 2013, che diventa – fin dal bilancio la cui presentazione è ora in scadenza – applicabile adesso a tutte le imprese, anche a quelle c.d. non IAS Adopter.
Il punto è che tale norma non è affatto chiara. Cosa significa: “A condizione che lo storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza intenti elusivi”? Parrebbe evidente sempre che i crediti debbano essere stornati rispettando tali precetti. E la citata Circolare – come appena visto – certo non aiuta, continuando di fatto a porre l’accento sulla necessità di documentare le solite casistiche (stato d’insolvenza definitiva, reati, tentativi legali infruttuosi etc.).
A parere di chi scrive, insomma, la normativa in questione appare oramai divenuta assolutamente anacronistica (anche e soprattutto a causa dell’attuale periodo di crisi economica), e necessiterebbe quanto meno di un immediato “restyling”. Con l’ultima Legge di Stabilità si è, semmai, a conti fatti, persa l’importante occasione di agire nella corretta sede istituzionale. 

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