Si avvicina la scadenza per il
deposito dei bilanci e gli studi professionali sono alle prese – tra l’altro – con
l’usuale lavoro di raccordo fra norme civilistiche e fiscali. Con riferimento
alle varie poste meritevoli di particolare attenzione in relazione ai
potenziali risvolti di carattere fiscale, vi sono senza dubbio le perdite concernenti
i crediti non riscossi che l’impresa, specie in questi anni di grave crisi
economica, è costretta a sopportare.
L’art. 101, c. 5, del D.P.R. n.
917/1986 stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito
d’impresa se risultano da elementi certi e precisi, oppure se il debitore è
assoggettato a una procedura concorsuale o ha concluso un accordo di
ristrutturazione dei debiti omologato (art. 182-bis del R.D. 267/1942).
Come all’uopo precisato nella
Circolare Ministeriale 39/E del 2002, la deduzione dal reddito d’impresa deve
intendersi ammissibile quando la perdita su crediti diviene definitiva,
escludendo ogni elemento valutativo e presuntivo. In particolare, è stato anche
di recente ribadito (Circolare 26/E del 2013), che la definitività della
perdita è rinvenibile allorché si possa escludere l’eventualità che in futuro
il creditore riesca a realizzare, anche soltanto parzialmente, la propria
pretesa creditoria. Il generico riferimento dell’art. 101, c. 5, del TUIR alla
ricorrenza degli elementi certi e precisi implica, pertanto, la necessità di
ricorrere a una valutazione specifica, in base al caso concreto, dell’idoneità
di tali elementi a dimostrare la definitività della perdita, tenendo altresì
conto del peculiare contesto in cui la stessa è maturata. A tal riguardo,
l’Amministrazione ha osservato che la perdita su crediti può ritenersi definitiva
soltanto a fronte di uno stato oggettivo d’insolvenza non temporanea del
debitore, riscontrabile qualora la situazione di illiquidità finanziaria e di incapienza
patrimoniale sia tale da fare escludere la possibilità di un futuro
soddisfacimento della posizione creditoria. Detta situazione può certamente
considerarsi verificata, a parere dell’Agenzia delle Entrate, in presenza di un
decreto accertante lo stato di fuga, la latitanza o irreperibilità del
debitore, ovvero in caso di denuncia di furto d’identità da parte di
quest’ultimo (art. 494 c.p.), o nell’ipotesi di persistente assenza dello
stesso (art. 49 c.c.). A questo proposito, possono reputarsi quali sufficienti
elementi di prova tutti quei documenti attestanti l’esito negativo delle azioni
esecutive avviate dal creditore, come il verbale di pignoramento negativo, purché
l’infruttuosità delle stesse risulti pure sulla base di una valutazione
complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e
definitiva.
Sul punto, a esempio, la sopra
menzionata Circolare del 2013 ha ricordato che anche l’infruttuosa attivazione
delle procedure esecutive nei confronti di un ente pubblico, peraltro non
assoggettabile a procedure concorsuali, non è da sola sufficiente a dimostrare
l’impossibilità futura di recuperare il credito.
Un altro utile elemento di prova, a
corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, può essere rappresentato
dalla documentazione idonea a dimostrare che è sconsigliata l’instaurazione di procedure
esecutive: in proposito, possono essere tenute in considerazione le lettere dei
legali incaricati della riscossione del credito (Cass. 3862/2001), o le
relazioni rilasciate dalle agenzie di recupero di cui all’art. 115 del TULPS,
nell’ipotesi di mancato successo dell’attività di riscossione.
Fin qui la normativa vigente e le
conseguenti interpretazioni ministeriali e giurisprudenziali. Peraltro,
sembrerebbe quanto mai illogico estraniarsi dalla realtà in cui si vive nell’applicazione
pratica delle leggi. Su tale fondamento, non vi è chi non veda come, nella
fattispecie in esame, la legge paia oltremodo anacronistica.
Dopo aver subito nocumento a
seguito dell’IVA versata anche se mai incassata, l’imprenditore si trova
obbligato a spendere dei soldi per poter “ripulire” il bilancio civilistico da
voci attive che, di fatto, risultano essere fittizie, in quanto relative a
crediti di cui è certa l’impossibilità sostanziale d’incasso, ma è vietato il
riporto a perdita, salvo – come detto – non si spendano dei soldi per
dimostrare ufficialmente tale circostanza. Cosa che, tra l’altro, comporta una
scarsa veridicità circa la reale complessiva situazione dell’azienda.
Innanzitutto, le probabilità che
un’impresa sia assoggettata alle procedure concorsuali, oggi come oggi, sono
sempre minori: vuoi per i parametri fissati dalla legge, vuoi proprio perché i
creditori dovrebbero spendere dei soldi ed è evidente che non lo faranno se non
ritengono che almeno una parte del loro credito possa essere incamerato.
In secondo luogo, l’Agenzia delle
Entrate precisa che, se si vuole dedurre la perdita maturata su un credito, in
pratica, o viene dichiarato il fallimento del debitore, oppure: “la
definitività della perdita è rinvenibile allorché si possa escludere
l’eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, anche soltanto
parzialmente, la propria pretesa creditoria”. Ma, nel caso di un fallimento, in
genere, accade proprio questo: insinuazione al passivo per il 100% del proprio
credito e presumibile realizzo al termine della procedura di una piccola parte
dello stesso.
Si obietterà che, proprio la
recente Legge di Stabilità ha introdotto un correttivo alla normativa,
prevedendo che, in caso di cancellazione di un credito dallo stato
patrimoniale, si potrà dedurre la relativa perdita senza dover dimostrare la
sussistenza dei requisiti della «certezza e precisione», a condizione che lo
storno del credito sia stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi
contabili e senza intenti elusivi. In pratica, si tratta, però, solo della
stessa normativa varata nel 2012 e illustrata con la sopra menzionata Circolare
26/E del 2013, che diventa – fin dal bilancio la cui presentazione è ora in
scadenza – applicabile adesso a tutte le imprese, anche a quelle c.d. non IAS
Adopter.
Il punto è che tale norma non è
affatto chiara. Cosa significa: “A condizione che lo storno del credito sia
stato posto in essere nel rispetto dei corretti principi contabili e senza
intenti elusivi”? Parrebbe evidente sempre che i crediti debbano essere
stornati rispettando tali precetti. E la citata Circolare – come appena visto –
certo non aiuta, continuando di fatto a porre l’accento sulla necessità di
documentare le solite casistiche (stato d’insolvenza definitiva, reati,
tentativi legali infruttuosi etc.).
A parere di chi scrive, insomma, la
normativa in questione appare oramai divenuta assolutamente anacronistica
(anche e soprattutto a causa dell’attuale periodo di crisi economica), e
necessiterebbe quanto meno di un immediato “restyling”. Con l’ultima Legge di
Stabilità si è, semmai, a conti fatti, persa l’importante occasione di agire
nella corretta sede istituzionale.
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