La Corte di Cassazione nella sentenza n. 16695 del 3 luglio
2013 si è occupata di un caso interessante concernente l’eventuale
anti-economicità delle vendite sottocosto di un’impresa in crisi.
L’Amministrazione Finanziaria aveva contestato alla società, poi dichiarata fallita,
l’omesso versamento IVA, eccependo l’esistenza in via presuntiva ex articolo
54, comma 2, DPR 633/1972, di maggiori corrispettivi percepiti in relazione a
una vendita di prodotti, per il solo fatto che essa era avvenuta a un prezzo
inferiore rispetto al costo di produzione.
In Cassazione, la società eccepiva che la contestazione era
stata sollevata dall’Amministrazione senza considerare affatto che l’anti-economicità
dell’attività svolta trovava proprio una precisa e obiettiva ragione e
giustificazione nella crisi in cui l’impresa si trovava attanagliata, tanto poi
da sfociare nel suo fallimento.
La Suprema Corte, richiamando anche propria precedente
giurisprudenza (Cassazione n. 6849/2009), ha sottolineato dapprima che in tema
di IVA, per presumere ex articolo 54, comma 2, DPR 633/1972, l’esistenza di
ricavi superiori a quelli contabilizzati e quindi assoggettati a imposta “non
bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e
concordanti”. Nel caso in questione, poi, constatato lo stato di crisi
dell’impresa, risultava del tutto evidente che ben altro era il prezzo che
l’impresa avrebbe potuto ricavare da un bene quando esso fosse stato immesso
nel circuito da un’impresa in attività, rispetto a quello a cui lo stesso
avrebbe potuto essere realizzato allorquando, a esempio, sarebbe stato inserito
nell’ambito di una vendita fallimentare o simile.
Di conseguenza, la vendita sottocosto dell’impresa in stato
di crisi, salvo che ricorrano ben altre circostanze gravi, precise e
concordanti, appare come una condotta fiscalmente non stigmatizzabile proprio
in ragione dello stato dell’impresa in cui l’operazione economica deve essere
necessariamente contestualizzata per una sua obiettiva valutazione. La quale,
non potrà prescindere dal considerare le mutate esigenze dell’impresa, laddove
l’aspetto finanziario diventa spesso preminente rispetto a quello economico,
tanto da giustificare un sacrificio della redditività senza che ciò debba necessariamente
generare fattispecie suscettibili di accertamenti di natura tributaria.
Si tratta, a ben vedere, di un principio naturale, sul quale
la dottrina si è sempre largamente battuta. Registriamo, dunque, finalmente con
piacere il consolidarsi in proposito di un certo orientamento della
Giurisprudenza di legittimità.
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